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 2012  luglio 23 Lunedì calendario

LA FUGA DEI CAPITALI SIRIANI

Mentre le sanzioni occidentali continuano una lenta ma incisiva guerra economica contro il regime di Bashar al Assad, gli uomini d’affari siriani cercano di mettere al sicuro i proprio capitali. Solo nella lista nera delle sanzioni emesse dall’Unione Europea fino ad ora sono circa quaranta le compagnie e oltre cento le figure considerate complici del gioco del potere di Damasco. Un potere che negli ultimi decenni si è rafforzato anche attraverso la creazione di una fitta rete di businessman vicini alla famiglia Assad – parenti, amici o figure fidate – che fino allo scoppio delle proteste antigovernative controllavano circa il 70% dell’economia siriana. Uomini che vivevano una vita da privilegiati, detentori di fortune immense accumulate con il beneplacito del regime, che in questo modo si assicurava la lealtà politica della ricchissima borghesia di Damasco e Aleppo.
A sedici mesi dallo scoppio delle rivolte, questa parte della società siriana sta cercando diverse strade per autorigenerarsi. Per averne una prospettiva eccellente, il punto di osservazione privilegiato è il Libano. Qui tanti siriani sono giunti dopo lo scoppio delle proteste, il 15 marzo 2011, ma i ricchi e i poveri hanno un’accoglienza ben diversa. E’ in questo paese, d’altra parte – già fortezza consueta dei capitali pericolosi di tutto il Medio Oriente – che le fortune dei ricchi siriani sono confluite negli ultimi mesi.
Mentre la situazione economica del paese dei Cedri si fa sempre più nera di fronte al calo di investimenti diretti esteri dovuto all’incertezza della stabilità politica, i depositi nelle banche libanesi – sia quelle operanti in Siria sia quelle che hanno sede in patria – sono aumentati di oltre il 30% nell’ultimo anno e mezzo. Con il turismo in calo, è chiaro che per interpretare questo aumento di liquidità si debbano con queste somme incrociare le cifre della fuga di depositi dalle banche siriane. Solo in un mese, subito dopo lo scoppio delle prime rivolte, erano defluiti circa venti miliardi di dollari dalla Siria, in direzione Libano – un dato che aveva contribuito a far salire vertiginosamente l’inflazione nel paese in preda alla guerra civile.
Ma il Libano assorbe due anime della ricca borghesia siriana: da una parte ci sono coloro che, non colpiti direttamente dalle sanzioni, sono arrivati qui con le loro fortune, hanno comprato costosissime case sul litorale e hanno iscritto i propri figli nelle Università americane e francesi di Beirut.
La seconda anima della borghesia siriana è quella che l’Occidente considera la macchina di finanziamento al regime di Assad, e che ora è sottoposta al regime delle sanzioni e inibita ad aprire conti correnti in banche occidentali o effettuare transazioni in dollari. Anche per aggirare questi ostacoli, il Libano si rivela un eccellente bacino di attrazione di capitali. Basta avere un prestanome, qualcuno che in cambio di una lauta percentuale, accetti di depositare le fortune altrui nelle banche che operano negli alti grattacieli di fronte al mare di Beirut. Resuscitando lo spirito dei fenici, gli antichi abitanti delle coste libanesi, nonché i più famosi commercianti dell’antichità, questo paese sta adesso ospitando le ricchezze dell’élite economica siriana, fino ad ora collusa con il regime di Assad. Rino Gaetano cantava negli anni 70 «chi parte per Beirut ha in tasca un miliardo», quando già allora il piccolo paese dei Cedri era noto come uno dei più attraenti paradisi fiscali. Ed è così anche adesso: non importa chi è adesso o chi si è stato, qui ci viene chi ha un bel gruzzolo da mettere in sicurezza, l’unico vero passaporto necessario per varcare la frontiera.