Mauro Covacich, la lettura (Corriere della Sera) 22/07/2012, 22 luglio 2012
LO SCALATORE DI GRATTACIELI A MANI NUDE
Si arrampica su un semaforo per accontentare un fotografo e si ritrova in ospedale con quaranta punti di sutura. Ma qualche anno prima era già caduto da otto metri per mostrare un semplice esercizio ai suoi allievi. Risultato: entrambi i polsi fratturati e due mesi di ospedale, i primi giorni dei quali in coma. Ma cade anche prima, nel 1982, quando ha solo vent’anni. Questa volta è una normale arrampicata su una parete di roccia: perde l’appiglio a quindici metri e piomba a terra spaccandosi gli avambracci, il gomito, il bacino, il naso. Resta in coma per cinque giorni a causa di un edema cerebrale che gli lascerà un perfido regalino per la vita: le vertigini. Ma non siamo ancora agli inizi dell’anamnesi: cade anche nove mesi prima, sempre da quindici metri. Subisce tre interventi per aggiustare naso, polsi e talloni. È così che ha vissuto i suoi primi cinquant’anni Alain Robert: spaccandosi, aggiustandosi e subito riprendendo a scalare. A scalare grattacieli, perché Robert è un arrampicatore urbano, le sue vette sono in cima a quegli istogrammi che popolano i paesaggi delle grandi metropoli, pareti di sesto grado in cristallo e acciaio, complessi di smilzi picchi di calcestruzzo in piena downtown, la speciale orografia disegnata apposta per noi dagli architetti.
Nato a Digione il 7 agosto del 1962, abbandona presto le Alpi francesi per dedicarsi alla Tour Eiffel, alla Tour Montparnasse e via via agli edifici più alti del mondo. Una specie di antesignano del parkour, l’arte di trasformare le barriere architettoniche della città in risorse acrobatiche, ostacoli da domare con la propria inventiva. Anche Robert agli inizi sembra un maestro di parkour. A dodici anni resta chiuso fuori di casa: ha perso le chiavi e i suoi ritorneranno la sera tardi. Indugia per un po’ sul pianerottolo, poi comincia per gioco a scalare la facciata del condominio. Una piccola sfida con se stesso, arrampicarsi per otto piani evitando di chiamare mamma in ufficio. Un piede sulla grondaia, un piede sull’intonaco sbrecciato, una mano sulla ringhiera del balcone, qualcosa che monta dentro il petto in forma di silenziosa vibrante ribellione. Una specie di Barone rampante in versione metropolitana.
Nelle interviste, alla fatidica domanda sul perché, risponde sempre allo stesso modo: «Per gestire la paura». La paura è la scimmia fedele di tutti gli sportivi no limits: dai jumper senza paracadute agli scalatori degli ottomila senza bombole d’ossigeno, agli sciatori estremi in stile Tone Valeruz. Paradossalmente la paura è proprio ciò che ti aiuta a non farti prendere dal panico. Il neuroscienziato António Damásio la chiamerebbe un marcatore somatico, l’indispensabile componente emotiva di una decisione razionale. Alain Robert riceve continue visite dalla paura, la lascia entrare, la ascolta mentre si arrampica sulle vetrate lisce come ghiaccio verde, ogni volta a un passo dalla morte — letteralmente, a un passo dalla morte — con la sensazione di possedere la misura del rischio più estremo e quindi di non essere mai fino in fondo uno spericolato. Eppure non c’è rete, non c’è corda di sicurezza. La vita del free climber — o più propriamente del free solo — è appesa ai suoi polpastrelli e alle dita dei piedi, ma soprattutto al controllo dell’angoscia che questa consapevolezza eroga lungo tutta la salita. Figurarsi poi quale sia la tensione psicologica di chi ha già provato svariate volte il trauma della caduta.
I grattacieli non sono semafori, un piede in fallo ti procura un po’ più che una frattura ai polsi. «Ma è proprio questo che non mi fa sbagliare: il fatto che non posso permettermelo — dice Robert in un’intervista in rete. — Quando quelli di un’azienda di orologi mi proposero di girare un video in cui mi arrampicavo su un grattacielo, ho pensato che fossero pazzi. Ero ancora giovane. I grattacieli mi sembravano cose lisce, buone solo per i ragni, non li avevo mai osservati da vicino. Poi ho cominciato a conoscerli, a guardarli meglio, e ho scoperto che il 90 per cento degli edifici può essere scalato senza attrezzatura».
Così, di sporgenza in sporgenza, scalare i grattacieli è diventata una malattia (se non è folle, certo è morboso il rapporto che Robert ha costruito con la sua attività, nonostante il tentativo di farne un veicolo di sensibilizzazione per i problemi ambientali come il global warming). Sindrome del lavavetri. Dipendenza da precipizio, sempre a un milligrammo dall’overdose. Ovviamente non c’è Paese al mondo in cui le autorità gli concedano il permesso di realizzare i suoi progetti — mi capita spesso di immaginare le guardie al controllo passaporti con la sua foto segnaletica accanto al computer — sicché le scalate iniziano tutte all’alba, quando nei dintorni del grattacielo c’è solo qualche addetto alle pulizie e lui può sembrare un burlone (o uno svitato, o un ubriaco) che si mette seduto sulle ventole più basse dei condizionatori. Impossibile non cogliere una componente trasgressiva nel piacere di Alain Robert: al rispetto per la «legge della montagna», tipico dell’asceta alla Reinhold Messner, Robert oppone la beffa alla «legge degli uomini». Sono gli uomini a fermarlo.
Il 1° gennaio del 1997 viene fermato (e arrestato) al sessantesimo livello di una delle Petronas Twin Towers di Kuala Lumpur, ventotto piani prima della vetta — e i poliziotti non saranno meno inflessibili quando, esattamente dieci anni dopo, ritenterà l’impresa. I 451 metri delle gemelle malesi restano inviolati, ma è pressoché infinito l’elenco dei tetti su cui riuscirà a mettere i piedi negli ultimi vent’anni. La Sydney Tower, il Four Season di Hong-Kong, lo Shinjuku Center Building di Tokyo, l’Empire State Building di New York, la National Bank di Abu Dhabi, parliamo di posti talmente alti che lungo il percorso ti puoi trovare a dover affrontare imprevisti climatici. Nel 1999, scalando la Sears Tower di Chicago, intorno al centesimo piano, a più di 400 metri sul livello del mare, incontra una nuvola. Gli mancano circa una ventina di metri per raggiungere il tetto, ma non vede più nulla, ogni cosa è immersa nella nebbia, i vetri sono bagnati e scivolosi. Tra l’altro, sulla parete di un grattacielo non ci sono denti di roccia su cui tirare il fiato. Ma Robert è l’Uomo Ragno: così hanno imparato a chiamarlo le persone che si affollano sotto i grattacieli a guardare, ed è proprio indossando il costume del supereroe della Marvel che il nostro si è esibito in una delle più recenti salite: l’edificio della Total alla Defense di Parigi.
C’è follia in quello che fa? No, c’è fanatismo, c’è provocazione, c’è soprattutto la vocazione infantile a riempire di senso la vita, tenendola sul bilico, dando verticalità al suo piattume. Ma non c’è follia. Per arrampicarsi senza ventose o ragnatele, con un misero sacchetto di magnesio legato dietro i fianchi, per quattro cinque ore lungo una pertica di mezzo chilometro fatta di infissi e scarichi pluviali, è necessario che il cervello funzioni benissimo.
Mauro Covacich