Filippo Tuena, la Lettura (Corriere della Sera) 22/07/2012, 22 luglio 2012
JACK LONDON E LA LUNGA CORSA ALL’ORO
«Foce dello Stuart River, Territori del Nord Ovest 25 dicembre 1897. Mia carissima mamma, eccoci, sani e salvi, sistemati al caldo nei nostri quartieri invernali. Non abbiamo ancora ricevuto lettere, e puoi immaginare quanto attendevamo nuove da casa. Questi sono i giorni più corti dell’anno e il sole non sorge più, neppure a mezzogiorno. Zio Hiram e Mr. Carter sono andati a Dawson per registrare qualche concessione e a ritirare la posta, se c’è. Hanno preso cani e slitta, perché devono viaggiare sul ghiaccio. Li aspettiamo di ritorno per la cena di Natale, ma penso che George ed io mangeremo da soli. Sarò il cuoco, così stai certa che avremo una cena sontuosa. Inizieremo con le specialità. Ci sarà bacon fritto, fagioli ripassati, pane lievitato…».
Così inizia uno dei primi racconti di Jack London, incentrato nella vita all’interno di una capanna, nella descrizione di una cena natalizia e nel sapido ritratto di alcuni tipi caratteristici che era facile incontrare allora da quelle parti: cercatori d’oro, rappresentanti legali del sindacato minatori, bulli. Tutti rigorosamente affamati e coperti di neve. Un Natale nel Klondike. London lo aveva scritto di ritorno dalla sua fallimentare esperienza di cercatore d’oro e lo aveva inviato a un paio di riviste. Assieme ad altri sette pezzi, era stato accettato per la pubblicazione nel marzo del 1899 da un piccolo magazine, «Youth and Age». Trascorsi inutilmente 10 mesi, London riprese i racconti che rimasero inediti e furono pubblicati postumi soltanto nel dicembre del 1976 in «Boy’s Life», la rivista dei Boy Scouts americani.
Nella capanna del racconto, simile a quella che effettivamente abitò (e che fu identificata negli anni 30, grazie al suo nome, graffito sulle pareti), arroccata sulle rive di uno dei fiumi ghiacciati del Nord Ovest, London c’era capitato travolto anch’egli dalla febbre dell’oro che avvampò nella costa Occidentale dell’America nell’agosto del 1896, quando un solitario pescatore di salmoni, tale George Washington Carmack, sul bordo del Rabbit Creek, un piccolo immissario dello Yukon, finì per calpestare una vena superficiale del metallo luccicante. Incredulo prima, ubriacato poi dall’insperata fortuna, raccolse le pepite a piene mani, le infilò in un sacco e si recò a Fortymile, un piccolo insediamento di cercatori d’oro. Andò a registrare la concessione sul Rabbit Creek e, messosi le spalle al sicuro, estrasse le pepite a una a una davanti a un pubblico incredulo e annoiato che sulle prime stentava a dar credito a quello che sembrava uno dei tanti millantatori che raccontavano cose mai viste e vissute. Le pepite che Carmack mostrò vinsero le perplessità e diedero il via a una frenetica corsa all’oro che nel giro di due anni finì per coinvolgere più di 100 mila tra avventurieri, disperati e sognatori.
Jack London attese quasi un anno prima di cedere anche lui a quella follia. E se vi si adattò fu forse per scacciare gli incubi che lo aggredivano in quei tempi. Era venuto a conoscenza che suo padre non era il suo vero padre, che sua madre aveva tentato il suicidio perché l’uomo che probabilmente era il suo vero padre aveva cercato di farla abortire. Il vecchio London gli confermò per lettera che le cose effettivamente stavano così. Era troppo. Decise di partire.
Il 25 luglio del 1897 s’imbarcò a San Francisco sul battello a vapore S.S. Umatilla. Con lui c’era James Shepard, il marito di sua sorella, che condivideva con Jack la passione per l’avventura e per la scrittura. A bordo conobbe altri compagni d’avventura: Fred Thompson, Jim Goodman e Merrit Sloper. L’Umatilla li sbarcò a Dyea, un porto nei pressi di Skagway, il che voleva dire che per raggiungere il Klondike avrebbero dovuto superare a piedi il passo Chilkoot, non proprio una cosa agevole.
Meno determinato del cognato, Shepard, dopo pochi giorni d’Alaska, fece marcia indietro e London proseguì con i suoi nuovi compagni. Superato il Chilkoot, i quattro raggiunsero i laghi Lindeman e Bennett. Si costruirono due zattere battezzate Yukon Belle e Belle of the Yukon e, dopo averle lanciate attraverso le rapide assassine del White Horse, raggiunsero le rive dello Stewart e presero possesso della capanna che li avrebbe ospitati durante l’inverno. Qui, come ricordò più tardi, London incontrò se stesso. «Lì nessuno parla. Tutti pensano. Puoi trovare il giusto punto di vista. Io ho trovato il mio». Durante una delle rare escursioni (passava gran parte del tempo nella capanna a leggere Marx, Darwin e Milton) trovò anche quella che sembrava un’inesauribile vena d’oro. Quando mostrò agli altri cercatori il minerale raccolto, fu preso per stupido. «Questo è l’oro dei farlocchi: pirite». La sua ricerca dell’oro finì qui. Andò allora in cerca di storie.
In primavera si trasferì a Dawson, il capoluogo del Klondike. Ma l’atmosfera era tutt’altro che elettrizzante. Un’accolita di naufraghi oziava nei saloon, il costo della vita era alle stelle e la ricerca dell’oro si stava mostrando per quella che era effettivamente: un’utopia. S’ammalò di scorbuto e conobbe le brande dell’ospedale di padre William Judge. In qualche modo si rimise in piedi ma era ormai chiaro che doveva andarsene. Ridiscese lo Yukon lungo tutta l’Alaska, fino al porto di St. Michel. Lì trovò un passaggio per San Francisco.
London abbandonò l’Alaska nel maggio del 1898. In quelle terre lasciò i suoi quattro incisivi — lo scorbuto l’aveva segnato duramente — e le speranze di diventar ricco con l’oro. Dovette ripiegare sulla scrittura, ma seppe trarne ugualmente guadagno perché sapeva ricordare quel che aveva vissuto e sapeva raccontarlo ancor meglio.
Tra i tanti che London aveva conosciuto a Dawson, c’era anche il mitico sceriffo di Tombstone, Wyatt Earp, che in Alaska avrebbe fatto fortuna gestendo un saloon a Nome, un villaggio di fronte alla foce dello Yukon, cosa che gli sembrava assai più redditizia che affaticarsi a cercar oro. Quando abbandonò il Nord Ovest aveva con sé 80 mila dollari, frutto degli incassi della sua attività e delle vincite al gioco. Ma la sua epopea non era nelle corde di London e lo scrittore lo ignorò nei suoi racconti anche se i due tornarono a incontrarsi a Hollywood, sempre avida delle storie che potevano raccontare. Il regista Raoul Walsh li ricorda entrambi nel 1915 quando erano venuti a cercarlo, forse per proporre di sceneggiare qualche loro avventura. Mentre parlavano, d’un tratto entrò nella stanza Charlie Chaplin. Squadrò prima Earp: «Tu sei quello dell’Arizona, vero?» e poi London: «C’è mancato poco che per colpa tua non andassi in Alaska a cercar oro», apostrofandoli con quel suo frettoloso modo di fare. I quattro rimasero a chiacchierare del più e del meno senza però che da quella singolare conversazione scaturisse uno specifico progetto di lavoro. Tuttavia dieci anni dopo (London frattanto era scomparso nel novembre del 1916) Chaplin realizzò La febbre dell’oro, mentre a celebrare il mito dello sceriffo infallibile ci avrebbero pensato, di lì a qualche anno, Henry Fonda e un cineasta irlandese con la benda sull’occhio che rispondeva al nome di John Ford.
Filippo Tuena