Arturo Carlo Quintavalle, la Lettura (Corriere della Sera) 22/07/2012, 22 luglio 2012
IL GRANDE MERCATO DELLA MEMORIA SENZA PIU’ IDENTITA’
Al Festival di Arles forse emerge un problema, quello della fotografia che imita, si traveste da opera d’arte, diventa quadro, e, nello stesso tempo, limita la produzione e usa le gallerie per proporsi come investimento nel difficile mercato di oggi. E, ancora, ad Arles, la fotografia mescola i generi, la fotografia trasforma le immagini di cronaca in simboli di un mercato della memoria. Infine la fotografia crede, o pretende, di essere nuova per via delle nuove tecniche peraltro studiatamente sovrapposte, tanto da essere irriconoscibili.
Ma la fine dell’analogico, della fotografia che si fonda sulla chimica, a favore del digitale, ha davvero creata una rivoluzione totale? Il sistema intercambiabile, discreto, della comunicazione ha davvero mutato e ancora di più muterà il nostro modo di pensare e di sentirci nella società e nel mondo? Fred Ritchin, in un libro ricco di stimoli e di problemi, dà una risposta affermativa (Dopo la fotografia, Einaudi, pp.XVII-222, 25, traduzione di Chiara Veltri) ma il nodo sta nella tesi di partenza.
Ritchin è autore di molti saggi che spostano l’attenzione dall’immagine tradizionale, densa di storia e di affetti, quella che Roland Barthes evocava come memoria di figure amate, verso una immagine labile, mutevole, modificabile, comunicabile ad ogni livello e con ogni tipo di strumenti, quasi sempre elettronici. Mai come in questi ultimi decenni il tema della fotografia è dibattuto e mai come oggi sarebbe necessario riflettere sulla foto, quella del passato, e sulle sue trasformazioni fino ad oggi. Susan Sontag ritiene che la foto sia come un’orma, una traccia del reale, ma, si chiede Ritchin, «E allora dove è il reale adesso»?
A dire il vero la fotografia è stata da sempre, dalle origini, un luogo del tutto convenzionale di racconto, e non penso alla fotografia off camera, e alle varie forme di astrazione, ma proprio alla capacità di ogni fotografo di cambiare taglio, composizione, contrasto, e di realizzare una vera e propria messa in scena che trasforma il reale, sempre. Semmai il rapporto col reale è un punto di passaggio importante per molti teorici, come Walter Benjamin prima di tutti, perché l’idea dello studioso della Scuola di Francoforte di considerare la fotografia come l’elemento capace di distruggere l’aura della opera d’arte, l’alone, il mito, l’idea di unicità, di irripetibilità, dunque la funzione «di classe» dell’opera d’arte, poteva per lui essere distrutta dall’immagine fotografica, nata come riproducibile. Ma allora se Ritchin prende una posizione simile a quella di Walter Benjamin contro l’identificazione della fotografia con l’opera d’arte e contro il suo attuale, programmato mercato, perché mettere in evidenza le differenze fra le vecchie tecniche analogiche e le nuove?
Lo studio fa molti esempi, tutti probanti, di montaggi digitali, coppie di ballerine che insieme mai si sono trovate sul ghiaccio, ritratti modificati, quelli che del resto sotto elezioni vediamo in Italia ad ogni angolo ripassati al Photoshop, ma dimentica di dirci che tutto quello che fa adesso il digitale veniva fatto, è stato fatto dall’analogico con altri mezzi, certo più lenti, certo non disponibili a essere trasmessi in tempo reale. Non dobbiamo dimenticarci di alcuni fatti: la fotografia nasce per essere moltiplicata e la sua trascrizione, prima con l’incisione poi con la litografia, permette la diffusione a stampa, e la trasmissione delle foto permette ai quotidiani di entrare nel mondo dell’attualità.
Le foto hanno imposto alla società trasformazioni continue, dalla prima macchina della Kodak alla Leica che ha cambiato il modo di pensare il mondo e di raccontarlo, alla foto a colori, alla Polaroid; trovo poi divertente che, fino ad oggi, quasi tutti abbiano sostenuto che la fotografia, ad ogni applicazione di nuove tecnologie, diventa diversa. Non è vero, l’incidenza delle tecnologie serve a dilatare gli spazi della comunicazione ma il fatto di inviare una fotografia per posta o per via elettronica, il fatto che le foto oggi possano essere del tutto virtuali e quindi che non vi sia certezza degli eventi o delle figure rappresentate, non sembra molto nuovo.
Nella storia della fotografia l’invenzione, come nel cinema, è all’ordine del giorno e i procedimenti attraverso i quali portarla avanti sono parte della storia del medium. Con l’elettronica si fa prima? Certo. Trasmettiamo le immagini da un capo all’altro del mondo attraverso ogni genere di canale? Benissimo. Ma restano aperti molti problemi. Intanto l’identità delle immagini trasmesse contemporaneamente attraverso media diversissimi finisce per attenuare il senso della affermazione di McLuhan che, appunto, il medium è il messaggio. È vero invece che questo assedio delle immagini, questo modo di apprendere notizie, pillole, brevi forme memorizzabili per pochi attimi, sta rivoluzionando il tempo della formazione dei giovani e quindi quello del pensiero.
Così, mentre viviamo felicemente l’assedio delle immagini, e la loro stimolante seduzione, perdiamo le parole, ma anche le immagini, e il senso della loro durata, quella del racconto, del vivere, del pensare.
Forse sarebbe tempo di tornare a riflettere sulle possibilità di addestrare i giovani a conoscere, e quindi criticare, il sistema della comunicazione. Sperare che qualcuno illustri nelle scuole, dalle elementari in avanti, il sistema digitale come potenzialmente alternativo al mondo reale sarebbe importante. Almeno di sostenere che il mondo «reale» non esiste più, anzi, che forse non è mai esistito.
Arturo Carlo Quintavalle