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 2012  luglio 21 Sabato calendario

ROMA — Il governo fissa i nuovi criteri e alla fine, di Province, ne restano 43 su 107. «Una riforma storica, la prima dall’epoca napoleonica », si brinda alla Funzione pubblica, il cui ministro Patroni Griffi, autore della nuova fisionomia che stravolgerà la geografia italiana, assicura che, alla fine della “cura” (2013-2014), il processo di «soppressione e riordino» porterà a «40 Province, 10 Città metropolitane»

ROMA — Il governo fissa i nuovi criteri e alla fine, di Province, ne restano 43 su 107. «Una riforma storica, la prima dall’epoca napoleonica », si brinda alla Funzione pubblica, il cui ministro Patroni Griffi, autore della nuova fisionomia che stravolgerà la geografia italiana, assicura che, alla fine della “cura” (2013-2014), il processo di «soppressione e riordino» porterà a «40 Province, 10 Città metropolitane». L’iter non sarà breve (tempi e modi ancora da definire, secondo il ministro). E coinvolgerà innanzitutto le Regioni ordinarie, poiché su quelle Speciali vale il “muro” dell’autonomia e l’adeguamento seguirà procedure diverse. Al contrario, le prime dovranno affrettare il passo e stilare l’elenco, entro l’anno (quando l’accorpamento sarà legge), delle “ripescate”, le 50 Province destinate a perdere il loro status per “accorpare” sedi, funzioni, personale con le vicine (sarebbero 64 con quelle di Sicilia, Sardegna e Friuli). Basta che siano popolate da almeno 350 mila abitanti ed estese quantomeno per 2.500 chilometri quadrati (dai 3 mila ipotizzati in prima battuta). Parametri minimi, stabiliti ieri dal Consiglio dei ministri, a cui rispondono, secondo i primi calcoli del governo, 36 Province (le “salvate”). Gli “accorpamenti” già sollevano polemiche, ma anche opportunità che i territori sembrano voler cogliere. Si parla di Provincia Romagnola tra Cesena, Forlì, Rimini e Ravenna. E di Provincia del Buon gusto per Parma, Piacenza, Modena e Reggio Emilia. Ma anche di Provincia Pontina e della Ciociaria per Latina e Frosinone e di Provincia Adriatica per il “matrimonio” possibile tra Teramo, Pescara e Chieti. Mentre ancora Savona e Imperia paiono destinate a formare la Provincia di Ponente. Fantasie? Si vedrà se a prevalere saranno i campanilismi o le esigenze della spending review. Non mancano, intanto, critiche e distinguo, naturalmente. Come quelle dell’Unione province italiane (Upi), che apprezza il disegno complessivo, stimando risparmi di 500 milioni a regime dalla “dieta” imposta alle strutture politiche e alle sedi, più 1-1,5 miliardi dalla conseguente riorganizzazione degli uffici dello Stato: questure, commissariati, vigili del fuoco, protezione civile, agenzie economiche (Entrate, Demanio), prefetture (verrebbero dimezzate). Ma si teme per il destino occupazionale di 56 mila dipendenti (di cui 10 mila nei Centri per l’impiego) e per le funzioni. A vecchie e nuove Province dovrebbero restare solo trasporti e viabilità (125 mila chilometri di strade) e ambiente. Via lavoro e scuole. In particolare, l’Upi teme per l’edilizia scolastica: 5 mila edifici relativi a 3.300 istituti secondari, su cui le Province negli anni hanno investito moltissimo in manutenzione e controlli. E per le quali hanno circa 3 miliardi di debiti contratti con banche e Cassa depositi e prestiti. L’unica scure certa, nel frattempo, è quelle delle 10 Province più grandi che entro il primo gennaio 2014 diventeranno Città metropolitane: Roma, Milano, Napoli, Venezia, Firenze, Torino, Genova, Bologna, Bari e Reggio Calabria. Con il primo Super- Sindaco in arrivo già in primavera e proprio nella Capitale. È UNO dei temi caldi, dal momento che l’edilizia scolastica, storica competenza delle Province per quanto riguarda gli istituti secondari, sarà loro sottratta per passare in capo ai Comuni. Spetterà dunque ai sindaci costruire nuove sedi, gestire eventuali accorpamenti o fusioni, fare la manutenzione ordinaria e straordinaria. E soprattutto vigilare e controllare le strutture. NULLA cambia, purtroppo, sul versante tasse. L’addizionale versata dagli automobilisti quando sottoscrivono l’Rc auto — e che per il 2012 almeno la metà delle Province italiane ha provveduto a rincarare dal livello base (il 12,5% del premio) — rimarrà tal quale. Analogamente i tributi ambientali e l’Imposta di trascrizione (Ipt) per i passaggi di proprietà o immatricolazioni di nuove auto. Entrate ancora essenziali. SI TRATTA di competenze che sembrano destinate alle Regioni. I 500 Centri per l’impiego oggi esistenti (in media 5 a Provincia) investono quasi un miliardo per le politiche del lavoro. Chi vorrà iscriversi nelle liste di isoccupazione o informarsi su borse, offerte, tirocini dovrà tenere conto ell’accorpamento dei Centri che seguirà l’assetto delle nuove Province. Così per la formazione professionale. VIABILITÀ e trasporti rimangono competenze delle Province che gestiscono 125 mila chilometri di strade italiane con un impegno finanziario importante, tra i 2,5 e i 3 miliardi di euro. E investimenti altrettanto significativi, realizzati negli anni, tra costruzione, progettazione, miglioramento e manutenzione della rete. Senza trascurare i compiti di vigilanza che la legge assegna proprio alle Province. TROPPO presto per dirlo. Le Super-Province del futuro potrebbero assumere nomi nuovi. E a quel punto si può supporre anche un cambio della sigla da apporre sulla targa (in modo facoltativo nella sua versione attuale) con logica e dolorosa, per i campanilismi, rinuncia a quelle storiche. Le motorizzazioni, poi, rischiano una severa dieta dimagrante: una sola per le Province accorpate, forse con sedi distaccate. IL DIMEZZAMENTO delle Province comporterà in prospettiva anche una riorganizzazione degli uffici periferici dello Stato. Quasi sicura una riduzione dei Prefetti (della metà), ma anche uno snellimento nella distribuzione di Questure, Commissariati, Vigili del Fuoco, Protezione Civile. Con eccezioni per i territori dove il rischio criminalità è maggiore. Nessun abbandono, però, assicura Palazzo Chigi. TUTTE le competenze “verdi” rimarranno alle Province, vecchie e nuove. Non solo compiti di protezione e osservazione di flora, fauna, acque e loro inquinamento, gestione del patrimonio idrico, ma anche la predisposizione e l’approvazione dei piani di risanamento. Resta alle Province pure l’emissione delle licenze di pesca e caccia e, con ogni probabilità, del patentino per le guide turistiche. LE 107 Province italiane hanno un patrimonio immobiliare considerevole. Molte hanno sedi importanti, in palazzi storici che l’Unione delle Province si augura non siano dismessi, ma usati per le funzioni comuni nel momento in cui si procederà con gli accorpamenti. Esiste poi la questione del personale, ben 56 mila dipendenti che andranno ricollocati presso Comuni o Regioni, seguendo il criterio delle “funzioni” cedute. (V.Co.) ELSA VINCI ELSA VINCI ROMA — «E Arezzo? Che ne sarà di Arezzo?». Fiorentini e aretini si guardano in cagnesco dalla battaglia di Anghiari, sei secoli fa, cruciale per i destini della Toscana e la supremazia di Firenze. Città rivali costrette a immaginarsi unite. Per sopravvivere ai tagli del governo. E il toto-accorpamenti imperversa sui blog. I livornesi in vista del matrimonio con Pisa sgranano la lista dei proverbi, fin dal celebre “Meglio un morto in casa che un pisano sull’uscio”. Un pisano risponde: «Che Dio li accontenti ». Ma Mario Cardinali, direttore del settimanale satirico livornese Il Vernacoliere, sostiene che l’accorpamento si può fare: «Come popolazione i livornesi continueranno a essere livornesi e i pisani a essere pisani». I fiorentini rispondono con Dante: «Ahi, Pisa vituperio delle genti». La guerra del pesto ha invece, e da sempre, separato i trapanesi dagli agrigentini: lo preparano in modo diverso. La fusione tra province arriverà in cucina? I Vibonesi, che nulla vogliono avere a che fare con Cosenza e Catanzaro, sostengono che gli affettati e la ‘nduja provenienti da altre località calabresi fanno praticamente «schifo». Ma è soprattutto uno l’interrogativo che attraversa i blog: quale provincia diventerà depositaria delle cozze alla tarantina? Poche le certezze: ai casertani «non piacerà» la mozzarella di Benevento. «E Pordenone non finirà mai sotto Udine», promette battagliero Alessandro Ciriani, Pdl, presidente della provincia di Pordenone. «Piuttosto siamo pronti ad andare sul ponte del Tagliamento per difendere il nostro territorio». Più laconico ma non meno rassegnato Feliciano Polli, presidente dell’amministrazione provinciale di Terni, che fa notare «l’assurdo in Umbria, con una sola provincia, Perugia, grande quanto la regione ». Nel Lazio visto che Latina finirebbe sotto Frosinone sui blog spopola la frase: «Ma come? Invece di ricacciarli a casa loro i ciociari li vogliono accorpare a quel poco di civiltà che qualcuno portò dal nord ottant’anni fa?». E Lodi? Ci ha messo secoli ad affrancarsi da Milano, tutto inutile. C’è chi ricorda ancora quel 1992, alla fine della Prima Repubblica, quando ai lodigiani riuscì l’impresa impossibile persino al Barbarossa. E invece, dopo soltanto vent’anni di “indipendenza”, la cocente delusione. MELANIA DI GIACOMO SUL CORRIERE DELLA SERA ROMA — La «Provincia della Romagna» e quella del «Gusto» in Emilia, la «Pontino-Ciociara», la «Grande Brianza», e quella «delle Langhe». La nuova cartina dell’Italia dovrà prevedere meno della metà delle attuali 107 Province. E i criteri previsti dalla delibera emanata ieri dal Consiglio dei ministri, 350 mila abitanti e 2.500 chilometri quadrati, mettono a rischio 64 enti, 50 nelle Regioni a statuto ordinario e 14 in quelle a statuto speciale, salvandone per adesso quindi solo 43, tra cui le 10 Città metropolitane. Così gli effetti del «riordino» delle geografia delle amministrazioni locali saranno in alcuni casi un ritorno alle origini e ai nomi storici; in altri i territori dovranno trovare la maniera di convivere per svolgere assieme alcune funzioni, come la viabilità e la tutela ambientale. «L’esito generale della riorganizzazione potrà portare a un numero, con qualche approssimazione, di 40 Province e 10 Città metropolitane», ha spiegato ieri il titolare della Funzione pubblica, Filippo Patroni Griffi, al termine di un Consiglio dei ministri che è andato avanti sul taglio delle Province, mentre ha soprasseduto sulla impopolare possibilità di sopprimere per quest’anno le festività patronali e Santo Stefano (dettata dalla manovra di Ferragosto scorso). La novità di ieri è che il governo non parla più di «soppressione e accorpamento delle Province», termini che erano stati utilizzati nello spiegare il provvedimento di spending review, allarmando l’Unione delle Province, ma appunto di «riordino» con il pieno coinvolgimento delle autonomie locali. In base a criteri che tra l’altro sono stati ritoccati rispetto alle più stringenti indicazioni trapelate. Il precedente tetto dei 3 mila chilometri quadri di estensione poneva problemi irrisolvibili: alle due Province liguri vicine di Savona (1.500 chilometri quadrati) e Imperia (1.150), che insieme non raggiungevano in requisiti, mentre ora potranno fare la Provincia del «Ponente»; Caserta, invece, si estende per 2.600 chilometri, ma ha quasi un milione di abitanti, e Pesaro-Urbino avrebbe dovuto accorparsi con Ancona che è il capoluogo di Regione, e in quanto tale non viene toccato. Ora saranno i consigli delle autonomie locali, organi di livello regionale, a predisporre un progetto di accorpamento che sarà presentato alla Regione e da questa al governo. «Entro l’anno, se non prima — secondo il ministro — il riordino delle Province sarà legge dello Stato». Quindi la discussione si apre a livello locale, dove già non mancano le resistenze. In Toscana tutto l’attuale sistema va ridefinito: la sola Firenze rientra nei requisiti, ma diventerà Città metropolitana dal primo gennaio 2014; le rivali storiche, Pisa e Livorno, se ne dovranno fare una ragione e unirsi, come anche Siena e Arezzo. Nel Lazio la presidente della Regione, Renata Polverini, contesta i criteri. Anche qui la revisione dovrà essere una rivoluzione, con Latina che si potrebbe unire a Frosinone e Viterbo; Rieti e Civitavecchia che faranno assieme la Provincia della «Tuscia e Sabina». E le Regioni a statuto speciale mettono le mani avanti, rivendicando la propria autonomia. La Sardegna, per esempio, dove risponde ai requisiti solo Cagliari, prevede per legge tre Province: anche Sassari e Nuoro. Tra le scelte obbligate, la neonata provincia BAT, Barletta, Andria e Trani (operativa solo dal 2009), farà con Foggia l’antica «Capitanata»; in Abruzzo la Provincia «Adriatica» metterà insieme Teramo, Pescara e Chieti. In Lombardia, dove rimangono solo Brescia, Bergamo, Pavia, mentre Milano pure sarà Città metropolitana, nascerà la «Grande Brianza». Alcune Province poi con territori molto piccoli, come Catanzaro e Campobasso, sono fatte salve perché capoluogo. Finita la riorganizzazione, i nuovi enti avranno funzioni di tutela e valorizzazione dell’ambiente, pianificazione territoriale, della viabilità e del trasporto provinciale. Perdendo quindi le competenze sul mercato del lavoro e l’edilizia scolastica. Ed è su questo punto che l’Upi, pur apprezzando il gesto distensivo fatto dal governo decidendo di riordinare le Province e non abolirle, ora si aspetta un confronto e non è disposta a seppellire l’ascia. Melania Di Giacomo ROSARIA TALARICO SULLA STAMPA Potranno i parsimoniosi criteri della spending review avere la meglio sul campanilismo italico? Il decreto varato ieri dal Consiglio dei ministri in tema di «riordino» delle province italiane ha creato più di un mal di pancia. Naturalmente tra chi rischia la cancellazione amministrativa e geografica. Se il presidente dell’Upi (l’Unione delle province) Giuseppe Castiglione parla di «un processo di riforma istituzionale dal quale ci auguriamo esca una Italia più efficiente, con una amministrazione più moderna», il tono muta decisamente tra chi è a un passo dalla sparizione. I presidenti delle province a rischio hanno chiesto di «bloccare l’ulteriore tentativo da parte del governo di definire criteri di taglio lineare e puramente dimensionali delle nostre province» ed esortano l’Upi a denunciare immediatamente l’incostituzionalità dell’articolo 17 del decreto e «di sospendere ogni disponibilità a collaborare col governo sulla riorganizzazione e il riassetto delle Province». Ma cosa determina gli accorpamenti tra province? In base ai criteri rivisti e approvati ieri dall’esecutivo, i nuovi enti dovranno avere almeno 350 mila abitanti ed estendersi su una superficie territoriale non inferiore ai 2500 chilometri quadrati. Saranno quindi 64 su 107 le province da accorpare, di cui 50 in regioni a statuto ordinario e 14 in regioni a statuto speciale. Le province salve sarebbero dunque 43 su 107 di cui: 10 metropolitane, 26 in regioni a statuto ordinario e 7 in regioni a statuto speciale. Tuttavia va detto che in queste ultime varranno le prerogative previste dai rispettivi statuti. Anche se rispetto ai precedenti e più restrittivi criteri è stato fatto un passo avanti, in alcune regioni il taglio delle attuali province sarà drastico. Ad esempio in Toscana dove rispetto alle dieci attuali province, solo Firenze avrebbe i requisiti per restare e anche per trasformarsi in città metropolitana. Le restanti nove dovranno accorparsi in due nuove amministrazioni provinciali. È pensabile, per dire, che la storica rivalità Pisa-Livorno possa essere cancellata per decreto? Va un po’ meglio in Lombardia: su 12 province attuali, solo 4 (Milano, Brescia, Bergamo e Pavia) hanno i requisiti per rimanere in vita (Milano si trasformerà in città metropolitana). Le nuove province avranno competenza in materia ambientale, di trasporto e viabilità. Mentre perderanno alcune funzioni (mercato del lavoro ed edilizia scolastica). Si è trasformato invece in un nulla di fatto l’accorpamento delle ferie «per motivi giuridici ed economici». Il consiglio dei Ministri ha infatti espresso parere contrario perché la questione avrebbe riguardato solo tre giorni l’anno: lunedì di pasquetta, il 26 dicembre e la festività dei Santi patroni e per scongiurare ricadute sul turismo. INTERVISTA A EDOARDO NESI Siamo dentro un romanzo di Kafka, o di David Foster Wallace»: per spiegare come si sente, Edoardo Nesi, assessore alla Cultura e allo Sviluppo economico della Provincia di Prato, ricorre ai ferri del suo primo mestiere, quello di scrittore. Che cosa succederà a Prato? «Chi lo sa? Se Firenze diventa, come sembra, un’area metropolitana, Prato e Pistoia insieme non raggiungono il numero minimo di abitanti. L’incertezza è assoluta: questi “editti reali” colpiscono un territorio che non conoscono. Tra l’altro, non abbiamo capito quando finiremo di esistere. Quando ci danno il colpo di grazia? Sappiamo solo che nessuno si opporrà, né a destra né a sinistra. È una fase della storia d’Italia che spero finisca presto». Come si vive l’incertezza dentro il palazzo della Provincia? «Ci sentiamo tutti vittime di una caccia alle streghe, sembra che la provincia sia il ricettacolo di ogni spreco, mentre io qui ho visto lavorare molto bene, ho conosciuto personalità di prim’ordine. La nostra Provincia è piccola, ha un centinaio di dipendenti, tutti terrorizzati: non sanno che fine faranno. La Provincia faceva parte di quell’idea di governo diffuso che improvvisamente è diventata un lusso. Ci hanno già lasciati soli di fronte alle forze del mercato globale, perché staccare, anzi, recidere, tutti i legami con il territorio?». Cosa l’ha spinta a impegnarsi come assessore? «L’idea che la politica fosse un’arte nobile alla quale non si potesse continuare a sfuggire. Poi la curiosità scimmiesca per ogni avventura. Infine la proposta che mi fece il presidente, Lamberto Gestri: voleva affidarmi insieme Cultura e Sviluppo, una scelta innovativa e necessaria. Abbiamo lavorato su progetti che coinvolgevano più Comuni, alla metropoli etrusca scoperta sotto un’area industriale, e poi sui finanziamenti alla realtà diffusa della cultura, i teatri, le biblioteche, i cinema. Chi si occuperà di loro ora?». Le nuove Province più grandi? «Mah... Pare che debbano occuparsi di viabilità e ambiente. Che senso ha? La spending review aveva tagliato tutto quanto si poteva tagliare, siamo già paralizzati, ora ci aboliscono. Siamo tra Kafka e Foster Wallace».