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 2012  luglio 20 Venerdì calendario

«Io pm assolto dopo 15 anni ho anche rischiato di morire» - Il giudice Mario Conte com­pirà 61 anni il mese prossi­mo

«Io pm assolto dopo 15 anni ho anche rischiato di morire» - Il giudice Mario Conte com­pirà 61 anni il mese prossi­mo. Gli ultimi quindici anni della sua vita li ha passati da imputato. Intanto continuava ad andare in ufficio, ad amministra­re giustizia in nome del popolo ita­liano. Ma intanto il processo anda­va avanti. Magistrati come lui, col­leghi di toga e di carriera, lo hanno accusato di essere diventato un narcotrafficante: «Associazione a delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti», diceva il capo di imputazione. Giudici come lui hanno chiesto e disposto il suo rin­vio a giudizio, chiesto la sua con­danna a otto anni e mezzo di carce­re. E giudici come lui,l’altro ieri,lo hanno assolto con formula piena. Bisogna partire da qui,dall’ulti­ma puntata della storia, per capi­re l’apparente pacatezza- che il fa­talismo partenopeo non bastereb­be altrimenti a giustificare - con cui oggi Mario Conte racconta che alla fine la verità ha preso for­ma. Giustizia è fatta, come si dice: «Aspetto con curiosità di leggere le motivazioni. Ma già il dispositi­vo mi dice che il tribunale che mi ha giudicato conosceva bene il processo. Io sapevo di essere inno­cente, ma sapevo che non era suffi­ciente: dovevo dimostrarlo. E così ho fatto, accusa per accusa. Mi hanno capito». Ma in mezzo ci sono stati quindi­ci anni della sua vita di uomo e di magistrato. «Che devo dire? In questi anni ho dovuto affrontare anche altri pericoli (si è ammalato gravemente, e per questo il suo processo è stato separato dagli al­tri imputati, ndr ). Sono sfide che la vita ti mette sul cammino, e che non puoi fare altro che affrontare. Una cosa però la voglio dire: non sono questi i tempi che la giustizia deve avere». Quindici anni. Una infinità. Il pentito che diede il via all’in­dagine sul Ros di Bergamo, Biagio Rotondo, si è impiccato in cella cinque anni fa. Fu Rotondo a rac­contare un giorno al pm brescia­no, Fabio Salamone, che i carabi­nieri del Ros facevano strane co­se. Che organizzavano traffici di droga e di armi per farsi poi belli scoprendoli. Salamone aprì l’in­chiesta. Insieme a brigadieri e ma­rescialli, l’inchiesta alzò il tiro con­tro ch­i era accusato di averli utiliz­zati e coperti: Giampaolo Ganzer, generale, comandante del Ros; e Mario Conte, pubblico ministero a Bergamo. Il generale e il magi­strato furono accusati di avere da­to carta bianca alle spregiudica­tezze del Ros, per frenesia di glo­ria mediatica e di avanzamenti di carriera. Stavano così, le cose, dottor Conte? Davvero lei chiudeva un occhio, perché poi la gloria delle retate era anche sua? «Io decide­vo s­ulla base della realtà che mi ve­niva rappresentata. E, come ho di­mostrato, nulla in quelle versioni autorizzava a dubitare, a sospetta­re. Tant’è vero che quando sulla base di relazioni di quei carabinie­ri do­vettero decidere altri miei col­leghi, le presero per attendibili an­che loro. E non si scordi che in que­gli anni ero applicato alla Procura antimafia di Palermo, andavo e ve­nivo dalla Sicilia: la mia sede era Bergamo, ma la mia attenzione era anche su altro». L’universo in cui nasce e cresce l’accusa contro Mario Conte è quello oscuro ed incerto delle ope­razioni antidroga, degli infiltrati, dei carichi di cocaina seguiti pas­so per passo. Il mondo dei film americani, ma che in Italia arriva solo vent’anni fa, con la legge del 1990. «Le accuse contro di me par­tono dal 1991, quando ancora non c’era una giurisprudenza, una interpretazione attendibile della legge: che di punti oscuri ne aveva tanti, e infatti nel 2006 e nel 2011 sono state necessarie altre due leggi che rendessero più chia­ro fin dove ci si può spingere, e do­ve no». I carabinieri del Ros di Berga­mo e il generale Ganzer sono stati processati a parte, e condannati pesantemente: quattordici anni per Ganzer. Non si spaventò quan­do arrivarono quelle condanne? Non pensò che avrebbe fatto an­che lei la stessa fine? «La mia posi­zione processuale era diversa, e questo mi ha aiutato a continuare ad avere fiducia. Ai giudici ho por­tato non i miei convincimenti, non le mie proteste di innocenza, ma la prova concreta che non ave­vo nessun elemento per sapere co­sa accadeva in realtà». Accanto, fino alla fine, Conte ha avuto i suoi legali, Angelo Giarda e Glauco Gasperini. Ma la sua vita e la sua carriera sono state travolte da un processo che, da un certo punto in avanti, nessuno più vole­va fare, quasi che ne scottasse la paternità: trasferito da Brescia a Milano, da Milano spedito a Bolo­gna, da lì a Torino, poi ancora Bo­logna fin quando la Cassazione lo assegna definitivamente a Mila­no. E qui i suoi due tronconi si tra­scinano per anni e anni, due dibat­timenti infiniti e quasi surreali. In­tanto Mario Conte si ammala, combatte, guarisce, chiede e ottie­ne di andare a fare il giudice civile. Nelle aule, si cerca con fatica di ri­costruire i dettagli di operazioni antidroga dai nomi misteriosi («Cedro»; «Lido, «Shipping») per­se nelle brume degli anni Novan­ta e in quel mondo grigio di soffia­te, confidenti, trappole dove tira­re la linea di confine è maledetta­mente difficile. Oggi Mario Conte vuole solo tor­nare a vivere e lavorare in pace. Dell’incubo di essere un giudice accusato ingiustamente da altri giudici dice solo: «Mi sono difeso e ho vinto».Ma se gli si chiede:cre­de che tutti coloro che l’hanno ac­cusata in questi anni fossero in buona fede?,replica:«A questa do­manda non voglio dare una rispo­sta ». Come è stato in questi anni la­vorare nello stesso ambiente, a volte negli stessi palazzi, dei colle­ghi che la accusavano? «Non vo­glio dire una cosa retorica, ma io ho la coscienza a posto. Mi auguro che altri possano dire la stessa co­sa di se stessi».