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 2012  luglio 19 Giovedì calendario

BIMBE LASCIATE IN AUTO E MADRI LASCIATE SOLE

Riassumolanotiziaperco­modità del lettore. Una signora va a fare la spesa e si porta appresso,in auto,le tre figliolette:la più grandedi 8anni ela piùpiccinadi 7mesi.Lesono richiestipochiminutiperproce­dere agli acquisti e lei, non po­tendo fare diversamente, lascia le bambine in macchina con i fi­nestrini parzialmente abbassati in modo che possano respirare. Un passante assiste alla scena e avverteunaguardia.Laqualede­nuncialadonnaperabbandono di minori.
Mi domando: siamo sicuri che sia stata la mamma ad ab­bandonare le creature o non sia stata,invece,questaorrendaso­cietà talmente disorganizzata da trascurare le donne con pro­le? Propenderei per la seconda ipotesi. Mettiamoci nei panni della suddetta signora. Non ha una baby sitter, non ha una colf, non ha una parente da cui otte­nere il favore di badare alle fi­glie. Cos’altro avrebbepotutof­a­re se non uscire di casa con loro?
Non aveva alternative. Le ha chiuse nella vettura con ogni precauzione e si è recata a com­prare ciò che occorreva alla sua famiglia. Un quarto d’ora ed è tornata con le borse gon­fie di rifornimenti. E si è beccata la denuncia.
Mi auguro che il giudice sia com­prensivo. D’altronde, alle bimbe non è successo nulla, il che signifi­ca mancanza di materia per emette­re una sentenza di condanna. Ma il discorso è un altro. A tutti i livelli si predica quotidianamente che: 1) le famiglie italiane fanno pochi figli e il Paese invecchia, predisponendo­si a essere occupato dagli stranieri; 2) la percentuale delle donne italia­ne che lavorano è la più bassa d’Eu­ropa, e ciò è tra le cause principali del nostro dissesto economico.
Osservazioni impeccabili. Che però non tengono conto della real­tà, profondamente trasformatasi nell’ultimo mezzo secolo:sono mu­tate la vita, le abitudini e le esigen­ze delle persone; le città hanno cambiato volto; le famiglie patriar­cali non esistono più; la gente è sti­pata - non solo nelle metropoli - in condomini nei quali gli inquilini neppure si salutano; il mondo si è rivoltato, ma, chissà perché, le strutture riservate alla maternità e infanzia sono ancora le stesse del Duce, forse addirittura peggiorate. Gli asili nido (insufficienti e cari) hanno orari assurdi: alle 16, massi­mo 17, chiudono. E se una mamma esce dall’ufficio alle 18, chi va a prendere il bambino? Idem le scuo­le materne, elementari e medie. Le­zioni, prevalentemente al mattino, quasi sempre fino alle 13. Già. E do­po pranzo chi accudisce il ragazzi­no o i ragazzini? Alcuni istituti pri­vati offrono il tempo pieno; pieno si fa per dire: alle 16 o alle 17 si sba­racca. Tra l’altro l’istruzione priva­ta (non solo quella religiosa) è og­getto di attacchi violenti della sini­stra politica, le si negano contribu­ti statali benché sia assodato che la sua gestione è più economica ri­spetto al settore pubblico. Vabbè. Transeat.
Poi ci sono le vacanze: tre mesi, da giugno a settembre. E dove li metti i pargoli? Ci sono (pochi) luo­ghi che li ospitano, e anche quei po­chi hanno orari inconciliabili con quelli lavorativi dei genitori. Che fi­niscono per impazzire. Sono co­stretti a mobilitare nonni, amici, co­noscenti, vicini di casa. Non sanno a che santo votarsi nel caso in cui, frequente, non abbiano qualche vo­lontario cui appoggiarsi per dirige­re il traffico degli infanti.
Viene da domandarsi perché mai a nessuno sia venuto in mente di adeguare la scuola e le sue regole (ferme al 1950) ai ritmi vertiginosi della modernità. Non c’è stato un governo, né progressista né conser­vatore, che si sia accollato la re­sponsabilità di attuare una riforma nell’unico campo in cui dovrebbe essere obbligatorio, oltre che con­veniente, l’aggiornamento costan­te per non perdere competitività nella gara per la conquista del be­nessere. Se l’educazione (e la mac­china che la impartisce) non si adat­ta ai tempi, si produce nella colletti­vità un divario che a lungo andare si trasforma in handicap per la na­zione e i suoi cittadini.
Le donne ormai hanno (giusta­mente) accesso a qualsiasi profes­sione, anche quelle tradizional­mente maschili. Nelle università esse costituiscono la maggioranza assoluta. Ma se, come natura co­manda, partoriscono, non posso­no contare sul sostegno dei mariti, inclini a scaricare sulle consorti ogni rottura di scatole, e in genera­le sono abbandonate dalle struttu­re sociali amministrate dalla politi­ca, insensibili alle questioni fem­minili, familiari. È una tragedia. Ogni protesta e ogni sollecitazione a porvi rimedio cadono nel vuoto. I partiti non pensano alle cose serie, ma ai voti e, difatti, ne rastrellano sempre meno. Badano ad assume­re clienti nella burocrazia, a distri­buire pensioni anche a chi non ha mai versato contributi, ad assolda­re migliaia di guardie forestali, a sti­pendiare quelli dei lavori social­mente inutili e, comunque, non svolti. S’impegnano a danneggiare il Paese, a mantenerlo nell’arretra­tezza. Aumentano le tasse con di­sinvoltura per foraggiare l’esercito dei parassiti; ma, se devono spen­dere per realizzare un piano che consenta alle donne di vivere de­centemente, allora dicono che non ci sono soldi.
Come non ci sono soldi? Baste­rebbe non buttare via risorse in am­mortizzatori sociali mascherati in varie maniere vergognose e inve­stirle, piuttosto, nella realizzazio­ne di opere idonee a strappare le donne alla frustrazione di dover scegliere tra lavoro professionale e lavoro domestico. Siamo indietro, troppo indietro. Vogliamo tanti bambini, ma ce ne freghiamo se le loro mamme sono indotte a lasciar­li in macchina, incustoditi, per comprare la verdura. Anzi, le de­nunciamo. E magari le puniamo.