MAURIZIO MOLINARI, La Stampa 20/7/2012, 20 luglio 2012
Il raiss al bivio: fuga o massacro - A 17 mesi dall’inizio, la rivolta popolare contro il regime di Bashar Assad in Siria è divenuta il più sanguinoso tassello della Primavera araba e il suo esito resta incerto
Il raiss al bivio: fuga o massacro - A 17 mesi dall’inizio, la rivolta popolare contro il regime di Bashar Assad in Siria è divenuta il più sanguinoso tassello della Primavera araba e il suo esito resta incerto. Ecco una radiografia della crisi che fa duellare le maggiori potenze all’Onu e paventa i peggiori scenari per il Medio Oriente. 1. Indipendente dal 1946, la Siria è governata dal 1963 dal partito unico Baath a cui apparteneva Hafez Assad, padre dell’attuale presidente, che con un golpe sale al potere nel 1970. Nel 1999 a succedergli è Bashar mantenendo intatta la struttura del potere militare come la repressione del dissenso e una gestione dell’economia nelle mani dei leader del Baath. Le promesse di riforme economiche fatte da Bashar svaniscono nel nulla nel primo anno di governo. A innescare le proteste, nel febbraio 2011, sono scritte sui muri nella cittadina di Daraa contro Rami Makhlouf, uno degli imprenditori più ricchi e cugino di Bashar, considerato il simbolo evidente della corruzione all’origine della povertà dilagante. Il 15 marzo la rivolta inizia in più città. 2. Nascono come gruppi spontanei di singoli cittadini, soprattutto giovani e disoccupati, che danno vita a unità locali riunite in un Comitato di coordinamento che obbliga i partiti di opposizione, molti e divisi, a riunirsi in un Consiglio nazionale siriano, che però è basato all’estero. La defezione di soldati, quasi tutti sunniti, porta alla creazione dell’Esercito di liberazione siriano guidato dal generale Riad al-Asaad, che lo comanda dalla Turchia. Le diverse unità dei ribelli, militari e civili, non operano in coordinamento. A muoversi in solitudine sono anche i Fratelli musulmani che comunque aderiscono al Consiglio nazionale siriano e riescono a condizionare l’elezione del nuovo presidente, il curdo Abdulbaset Sieda. 3. Dallo scorso gennaio gruppi di volontari jihadisti provenienti da diversi Paesi arabi sono entrati in Siria dal Libano e dall’Iraq. Per il Washington Institute ve ne sarebbero almeno 3.000 operativi dentro i confini. Ayman alZawahiri, nuovo capo di Al Qaeda, li ha incitati a combattere contro il regime di Assad, accusato di essere laico e corrotto. L’intelligence americana ed europea teme che siano questi jihadisti ad aver messo a segno gli attacchi con autobombe contro le sedi degli 007 di Damasco. Assad ha più volte affermato che Al Qaeda ha infiltrato le unità dei ribelli, puntando a sfruttarli per impossessarsi della Siria. 4. Gli Assad appartengono alla minoranza alawita e hanno il sostegno delle altre minoranze - cristiani, circassi, armeni - intimoriti dal pericolo che la rivolta porti al governo la maggioranza sunnita, che compone il 65- 70 per cento della popolazione. I drusi, che con il 10 per cento degli abitanti sono la minoranza più numerosa, finora sono rimasti alla finestra. Il sostegno delle minoranze si lega a quello dell’esercito perché oltre l’80 per cento degli ufficiali e delle truppe scelte è alawita. 5. I ribelli ricevono i rifornimenti di uomini e armi attraverso i confini della Turchia. Arabia Saudita e Qatar pagano gran parte delle spese e, secondo alcune fonti di stampa nel Golfo, inviano anche ingenti quantitativi di munizioni. Gli Stati Uniti non forniscono armi ma la Cia ha dislocato alcune unità in Turchia per aiutarli a comunicare evadendo la sorveglianza elettronica del regime. In particolare gli americani hanno fornito ai ribelli delle valigette che consentono di creare dei microcircuiti di Internet, senza allacciarsi alla rete telefonica siriana. Lungo i confini siriani l’intelligence israeliana ha posizionato numerose unità, scegliendo tuttavia di mantenere un profilo assai basso. Gli aiuti al regime di Assad arrivano in gran parte con le forniture di armi dall’alleato di Teheran, che riguardano strumentazioni di intelligence per la sorveglianza e l’identificazione dei ribelli. L’altro alleato di Assad è la Russia, che gli ha fornito quasi l’intero arsenale dell’esercito e gestisce a Tartus una base della Marina nella quale da alcune settimane sono stati posizionati contingenti di truppe speciali arrivati per nave da Sebastopoli. Il confronto a distanza fra l’Arabia Saudita sostenitrice dei ribelli e Teheran alleata di Assad fa della crisi siriana un vero braccio di ferro sugli equilibri di potenza fra sunniti e sciiti in Medio Oriente, al punto da poter innescare un conflitto regionale. 6. È iniziata la scorsa settimana quando alcune unità dei ribelli sono penetrate nei quartieri alla periferia nord e sud della capitale. Protetti da una popolazione in gran parte sunnita, i ribelli sono riusciti a spingersi fino alla centrale Via Baghdad. Il loro intento è combattere in strade e vicoli per rendere impossibile alle forze di Assad a operare carri armati e artiglieria pesante. La tattica è tesa a dimostrare all’esercito di non poter controllare la capitale, favorendo così ulteriori diserzioni. Nelle ultime 48 ore la Turchia ha detto che oltre 2800 siriani, in gran parte soldati, hanno chiesto rifugio. Nell’impossibilità di vincere uno scontro frontale con le forze di Assad, i ribelli contano sulla loro implosione. 7. La Siria dispone del maggiore arsenale di armi chimiche del Medio Oriente. A crearlo fu l’Urss negli anni Settanta per consentire ad Hafez Assad di bilanciare la superiorità militare israeliana. L’ex premier israeliano Ariel Sharon nel 2003 affermò che Saddam Hussein aveva consegnato alla Siria gran parte delle sue armi proibite poco prima dell’inizio dell’invasione americana. I droni della Cia negli ultimi dieci giorni hanno osservato che alcuni quantitativi limitati di armi chimiche - soprattutto proiettili di artiglieria sono stati asportati dai depositi ma non è chiaro se l’ordine è arrivato da Assad o dai comandi militari. Il timore dell’amministrazione Obama è che il regime come ultima mossa disperata possa usare le armi chimiche contro la popolazione civile, come fece Saddam Hussein nel marzo 1988 contro i curdi di Halabja, in Iraq, causando migliaia di vittime. 8. L’attentato di mercoledì a Damasco in cui sono morti il ministro della Difesa, il genero di Assad e il capo delle unità anti-ribelli ha dimostrato la vulnerabilità della cerchia più ristretta dei collaboratori del presidente. Quale che sia il mandante dell’attacco, Assad ne è uscito più debole ed esposto a rischi. Non a caso da alcuni giorni non si fa vedere in pubblico e, secondo alcune fonti dell’opposizione, si sarebbe rifugiato nel palazzo presidenziale di Latakia, una città sul Mar Mediterraneo nel cui porto sono solite attraccare navi militari russe e iraniane, nonché situata in un’area della Siria dove è forte la presenza degli alawiti. 9. È evidenziata dal veto con cui ieri Russia e Cina hanno bloccato, per la terza volta, una risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu che avrebbe imposto sanzioni al regime di Assad per la repressione dei civili che, secondo stime dell’Onu, ha già causato almeno 8000 vittime. Mosca e Pechino temono che un avallo alle sanzioni aprirebbe la strada ad un intervento militare internazionale simile a quello che ha portato alla deposizione di Gheddafi in Libia, con il conseguente slittamento del Paese a favore dell’Occidente. L’impasse all’Onu si riflette nel fatto che i 300 osservatori disarmati inviati in Siria restano bloccati negli alberghi, privi di una missione da svolgere. 10. Il Raiss di Damasco ha due opzioni davanti a sé: può fuggire o combattere fino all’ultimo. A offrirgli la via dell’esilio sono state la Svizzera e la Russia, e l’amministrazione Obama ha più volte ribadito che «si tratta della soluzione migliore». Resistendo alla guida dei fedelissimi, Assad rischia di andare incontro ad una fine simile a quella di Gheddafi. Fino a questo momento, nelle interviste rilasciate sulla rivolta, Assad ha continuato a dirsi a favore di «riforme» e di una «transizione gestita dai siriani» ma l’escalation militare in corso rende difficile ipotizzare che possa consentirgli di rimanere al potere.