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 2012  luglio 21 Sabato calendario

Non è un Martini secco che fa Hemingway. Sono frasi come «Dopo un po’ me ne andai e uscii dall’ospedale e ritornai a piedi in albergo nella pioggia» con le quali chiude un romanzo di amore e di guerra

Non è un Martini secco che fa Hemingway. Sono frasi come «Dopo un po’ me ne andai e uscii dall’ospedale e ritornai a piedi in albergo nella pioggia» con le quali chiude un romanzo di amore e di guerra. Sono il controllo della lingua e la potenza della scrittura. Ma, forse soprattutto, a fare il capolavoro e a definire il grande scrittore americano è la ricerca artigianale della singola parola, qualcosa che solo l’arte può spiegare. È così che il lettore viene preso, portato dentro e fatto vivere nella storia. È l’ossessione per il termine perfetto: messo in quel punto, in quel momento, può gelare il sangue, può creare la tristezza, può spegnere e sollevare le speranze, può dare il senso del riposare in pace. Per Ernest Hemingway era così che bisognava fare. Quando, nel 1958, un giornalista della «Paris Review» gli chiese perché avesse scritto e riscritto (39 volte, diceva lui) il finale — citato sopra — di Addio alle armi, spiegò che aveva voluto «scegliere le parole giuste». Il metodo Hemingway è messo a nudo dalla pubblicazione — domani su «la Lettura» del «Corriere della Sera» — di tutti quei finali alternativi, in realtà 47. Una festa per chi ama uno dei maggiori romanzieri del Novecento e ha amato Addio alle armi, quello che molti considerano il suo lavoro più bello. Si entra nella sua testa, nel suo modo di vedere la vita. In uno dei tre finali chiamati «Nada», dallo spagnolo Niente, scrive, dopo che l’amata Catherine, la protagonista, è morta, che «Alla fine è meglio non ricordarsi nemmeno delle cose ma questo lo so». In una delle sei chiusure dette «Religiose», invece, dice: «Il fatto è che non puoi farci nulla. Va bene se credi in Dio e ami Dio». Quasi cinquanta ending, alcuni di una frase secca, altri più lunghi e articolati, sui quali Hemingway ha lavorato giorni, per arrivare a dare al lettore la chiusura definitiva del romanzo. Tentativi, studi, ipotesi. L’amico Francis Scott Fitzgerald, per dire, gli consigliò di usare, nel finale, il passaggio «the world breaks everyone» (il mondo spezza chiunque), che considerava essere una delle più belle frasi mai scritte nella lingua inglese. Hemingway ci provò, ma alla fine lasciò perdere: anzi, in calce ai suggerimenti di Fitzgerald scrisse di suo pugno «Kiss my ass. EH». Ma c’è di più nelle 47 alternative pubblicate nei giorni scorsi in una nuova edizione dall’editore storico di Hemingway, l’americano Scribner (gruppo Simon & Schuster). In via generale, c’è l’apertura di una finestra sui finali dei grandi racconti, sull’ultima pagina, di solito sacrificata a vantaggio degli incipit: una miniera tutto sommato poco frequentata che potrebbe nascondere gemme. C’è la spiegazione indiretta di cosa si intende quando si dice che Hemingway segue «il principio dell’iceberg», cioè un ottavo esplicito ed esposto in modo chiarissimo e sette ottavi sott’acqua, a segnare la complessità dell’autore: nelle ultime righe al lettore è reso il senso dell’intero Addio alle armi, con poche parole Hemingway gli fa sentire il dolore e il senso di perdita del protagonista maschile, Frederic Henry. C’è soprattutto la rappresentazione dello stile di lavoro dello scrittore. Nella prefazione a un’edizione del 1948, ripubblicata ora da Scribner, Hemingway racconta di avere steso il romanzo in un periodo di due anni, a cominciare dall’inverno del 1928, tra Parigi e diversi luoghi degli Stati Uniti, e di avere vissuto dentro al libro. «Ero più felice di quanto non fossi mai stato — scrive — Ogni giorno leggevo tutto il libro dall’inizio al punto a cui ero arrivato con lo scrivere e ogni giorno mi fermavo quando stavo ancora andando bene e quando sapevo cosa sarebbe successo dopo». Un Hemingway disciplinato e gran lavoratore. Che per Addio alle armi studiò e fece ricerche, per esempio sul clima del Nord Italia, dove la storia si sviluppa sul finire della guerra 1915-18, e sulle manovre militari — come ricorda nell’introduzione alla nuova edizione americana il nipote Seán Hemingway, che ha raccolto e ordinato i 47 finali conservati alla John F. Kennedy Library di Boston. Anche il lavoro sul titolo del romanzo fu laborioso: lo scrittore ne individuò più di 40, alcuni a freddo ma altri dopo lungo studio. Quello scelto, per esempio, è preso da una poesia del sedicesimo secolo di George Peele, altri vengono dalla Bibbia, altri ancora dall’Oxford Book of English Verse o addirittura dall’Educazione sentimentale di Flaubert. Addio alle armi fu pubblicato il 24 ottobre 1929, «il giorno che il mercato sprofondò», scrive Hemingway. E fu un successo. Il «giovedì nero» più famoso della storia per quel gran lavoratore fu forse il più glorioso. @danilotaino