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 2012  luglio 20 Venerdì calendario

SE IL SOGNO DI FELLINI VA IN FUMO A CINECITT


Fumo nero, puzzo acre, fiamme domate nella notte e mistero abbrustolito ieri mattina a Cinecittà. Dove tra immaginifici progetti e lavoratori licenziati sui tetti, ci mancava giusto l’incendio e nel leggendario Studio 5, quello di Ben Hur, di Fellini e di Maria De Filippi, brucia appunto sul bruciato. Così si arriva agli studios che fa un caldo abbacinante.
Rumore di cicale sui pini e di automobili sulla Tuscolana, presidi sindacali, un tamburo abbandonato sul marciapiedi e una scritta sul muraglione ocra che accoglie visitatori e ficcanaso. È una specie di rima e a suo modo pone un impossibile interrogativo: «Abete non sa quello che fa!/ Che direbbe Albertone se chiudesse Cinecittà?». Firmato «Spartaco», forse è il gladiatore protagonista di innumerevoli pellicole, ma a differenza di questo non si firmava con una stella a cinque punte.
Qui Albertone pare venisse fin da ragazzino,
a fare la comparsa nei film di romani e cartaginesi, i cosiddetti “sandaloni”.
E poi Sordi tornò ormai quasi alla fine anche ne “Il tassinaro”, cineprodotto di una bruttezza senza speranza, e al volante del suo taxi accompagnava a Cinecittà uno svogliatissimo Fellini con sciarpa e cappellone d’ordinanza. Che poi a sua volta quando il Maestro se ne andò, proprio nello Studio 5 fu allestita la camera ardente, vedi l’energia dei simboli, o dei presagi, o di chissà quale arcana entità di emblematica e fantasmatica necrofilia.
Quanto ad Abete, presidente di Cinecittà Studios, per la città dei sogni egli progetta un destino in cui giocano ad acchiapparella tutta una serie di parole -
hub,
distretto,
wellness,
sinergie,
uni-
cum,
parco ambientale,
asset,
alberghi,
loft
- che all’insegna dell’ubiquo e ricorrente
entertainment,
negli usi e costumi di Roma suscitano tuttavia i peggiori e immediati sospetti di incombente disoccupazione e speculazione edilizia, tanto per cambiare.
Con il che, su presumibile mandato di Abete, i giornalisti sono presi in consegna da una gentile signorina addetta alla comunicazione che alla guida di un’auto elettrica bianca, di quelle in uso a villa La Certosa, li conduce nel luogo della fatidica combustione per fargli constatare dall’esterno che non ve ne sono tracce, come effettivamente appare, e che il rogo era minimo, non si sente più neanche l’odore, ma dentro non si può entrare, non si può vedere, non si può chiedere, niente di niente.
Peccato, davvero. Perché il cinema accende la fantasia, anche quella retrospettiva, e di fronte alla cenere, alla gomma contorta, alle pareti affumicate sarebbe stato fantastico ripensare a tutto ciò che lì dentro la formidabile sapienza degli artigiani e l’eroica prontezza dei direttori di produzione hanno saputo creare in più di 70 anni: neve, deserto, macchine da guerra, templi, astronavi, mitologia, Venezia nel settecento, cow-boy, san Francesco, gangs of New York, stalattiti, Cappella Sistina, piramidi, ma poi anche “Amici” e Fiorello e perfino il congresso di scioglimento della Margherita, a riprova che le
ambientazioni bislacche prima o poi presentano
il conto.
Ma soprattutto è alla via Veneto de “La dolce vita” e al mare di “Amarcord” solcato dal “Rex” che torna la memoria estenuata dal rogo e dal suo enigmatico presentimento. Alle gallerie della metro di “Roma” e alla sala macchine di “E la nave va”: «Che poi dovemmo girare anche l’allagamento e sotto c’erano i cavi dell’alta tensione, immaginate la strizza...», ricorda Roberto Mannoni, storico collaboratore di Fellini e devoto custode della s u a
memoria, tuttora conservata in alcuni locali visitabili solo su appuntamento, ma certo non in questi giorni di fuoco e fiamme.
Rapido è il periplo dello Studio 5. Malinconico questo muto procedere su quattro ruote in un luogo che della passeggiata ciarliera sotto i pini e tra le rovine posticce costituiva la quintessenza, ma anche la poesia. Più che vuota, Cinecittà appare svuotata: in pochissimi ormai lavorano da queste parti. Adesso slitta anche il Grande Fratello. Più che densa di ricordi, sembra popolata di assenze, per non dire di spettri.
Qui davanti, ha raccontato Andreotti, gli sfollati e i profughi di guerra stendevano i panni e coltivavano le patate. Poi, grazie al giovane sottosegretario di De Ga-
speri, in quelle strutture di architettura razionalista volute da Mussolini («La cinematografia è l’arma più forte») e inaugurate nel 1937 con “Scipione l’Africano» e la più massiccia requisizione di elefanti nei circhi della penisola, arrivarono gli americani: capricciosi, ingenui, ubriachi, attaccabrighe. Ma tanto ricchi: «E “Quo Vadis” a Cinecittà - suggellò Andreotti - ha fatto più bene all’Italia del Piano Marshall».
Scivola via silenziosa la macchinetta di Abete, come il fantastico «tranvetto» azzurro che da Termini per decenni ha scaricato davanti ai cancelli orde di miserabili comparse, alcune però poi baciate dalla fortuna. E infatti c’è pure un film di Dino Risi ambientato a Cinecittà, s’intitola “Il viale della speranza”, ed è proprio questo che racchiude un bel prato pulito,
lasciandosi alle spalle le colonne a tortiglione, le finte statue, il cannoncino fasullo.
Ecco qui, vicino alla piscina, Anna Magnani aiuta la bimba di “Bellissima” a soffiarsi il naso; e dietro quel capannone, ne “L’intervista”, il giovane Fellini interpretato da Sergio Rubini assiste all’indimenticabile dialogo tra due indolenti tinteggiatori romani che devono sistemare un pannello: «A’ Cesare...», «Eh», «A Cesare, sai che te vojo di’», «Eh?», «Ma vaffanculo... ».
Arrivava anche una troupe di giapponesi, in quel film, a Cinecittà, e poi gli indiani che l’assediavano sul serio, come fosse un fortino. «E’ il posto ideale - sosteneva il Mago - il vuoto cosmico prima del big bang». Ci veniva pure la domenica, ricorda Mannoni, e una volta si spedì addirittura una cartolina da Los Angeles. Riceveva, disegnava, arruolava la gente più strana, sulla scrivania oltre alla colla, un tagliacarte, una sveglietta e certi pennarelli giapponesi, c’erano sempre un paio di forbici che utilizzava con le punte sulle dita per «scaricare la negatività» quando si accorgeva che qualcuno gliene recava una dose sovrabbondante.
Ora striscioni, licenziamenti, fumo acre, dolorosa quiete, fredde cortesie e improbabili sinergie
business oriented:
fa sempre un po’ male vedere la fine di qualcosa, il buio di un’impresa e dei sentimenti. E solo forzandosi quel tanto che basta si ricorda che il vecchio Angelo Rizzoli, che era nato poverissimo e aveva avuto una vita fortunatissima, si raccomandava sempre perché Fellini mettesse alla fine dei suoi film «un raggio di sole ». E lui ce la metteva, una lamina di luce dall’alto dello Studio 5, a rompere la penombra, a guadagnare una piccola speranza.