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 2012  luglio 20 Venerdì calendario

IL FILM CHE MI HA SALVATO (E ROVINATO) LA VITA


collegabile con scheda n. 2209137

C’era volta in America, anzi a New York, anzi a Bayside, Qyeens, un ragazzine cresciuto troppo in fretta che voleva fare l’attore. Uno che a 9 anni scappava a Manhattan per comprare le riviste di cinema, quelle con gli annunci di casting e i numeri di telefono. Che poi chiamava, fingendosi un adulto. «Dicevo: salve, sono un attore. Non sapevo che cosa stavo facendo, ovviamente, ma avevo capito che in quel modo avrei potuto evitare la scuola e scappare di casa, avere l’attenzione della gente, sentirmi importante, amato. Ho avuto un’infanzia molto strana, mi capitava spesso di ritrovarmi a essere l’unico bambino nei luoghi che frequentavo: i bar, le pizzerie, i locali dove facevo i miei show, le imitazioni, spettacolini da cabarettista improvvisato. Il mio motto era “ I don’t wanna go home” , l’importante era fuggire dalla mia famiglia».

Ho cercato a lungo Scott Tiler, il giovane Noodles, il piccolo De Niro. L’ho trovato in Rete, è ovvio, incrociando le ricerche su Google e qualche profilo su Facebook, fino a quando ho avuto la ragionevole certezza che fosse lui. C’era una volta in America, il film su cui sto raccogliendo materiale da anni, documenti e interviste soprattutto, è stato il suo primo e unico momento di gloria, almeno al cinema. È uscito quando lui aveva 16 anni e la sua promettente carriera di attore (guardatelo, se vi capita, è bravissimo) è iniziata e finita così: inAmerica, l’ultima grande opera di Leone (scomparso nel 1989, all’età di 60 anni, dopo aver segnato la storia del cinema e “ inventato” lo spaghetti western con la “ trilogia del dollaro” ) non l’ha vista nessuno, per anni. I distributori della Warner la fecero a pezzi (troppo lunga, troppo complicata), la rimontarono, espropriarono il regista del capolavoro che aveva progettato per quasi due decenni, in uno dei più folli e insensati suicidi artistici e commerciali del cinema moderno. A Scott piace parlare del film. Oggi, 28 anni dopo la première di Cannes (dove il film fu presentato fuori concorso, nel 1984) a cui lui non fu invitato, dare un senso a quella lontana e bizzarra avventura è ancora una sua priorità. Una sera di tre anni fa, per esempio, la mia chat di Facebook si risvegliò all’improvviso.
19 settembre 2009, ore 22.27
SCOTT: Ehilà. Grande première stasera a Hollywood per OUTIA (Once Upon a Time in America, ndr).
PIERO: Ciao. Davvero? Ci vai?
SCOTT: Retrospettiva Leone all’Egyptian. Non posso, lavoro troppo... hahahaha
PIERO: Ho incontrato Raffaella, la figlia di Leone. Tè la ricordi?
SCOTT: Sì sì, io e Rusty facevamo gli stupidi con lei.
PIERO: Lo posso immaginare!
SCOTT: Come sta?
PIERO: Direi bene...
SCOTT: Se la rivedi, dille che il giovane Noodles la saluta.
PIERO: Lo farò.
SCOTT: Leone, un grand’uomo, grandi idee, una grande visione. Una morte tragica.
PIERO: Da quell’incontro sono uscito esattamente con questa idea.
SCOTT: Bisogna rendere giustizia a Leone. Quando aveva un progetto che lo appassionava, Sergio andava fino in fondo. Anche se avesse dovuto lavorarci per anni.
PIERO: È vero. Sei ancora in contatto con Rusty?
SCOTT: No. Ho saputo che sta in North Carolina. Siamo diventati come Noodles e Max... hahaha.
PIERO: :’) Andavate d’accordo, vero?
SCOTT: Un rapporto complesso. Eravamo ragazzi. Negli ultimi 20 anni l’avrò visto quattro volte al massimo. Gli attori sono a dir poco tipi particolari.
PIERO: Sì! Ne abbiamo parlato con Raffaella: le ho chiesto se un film lungo e complicato come OUTIA ha creato uno speciale legame tra chi l’ha fatto. Lei ha detto: sì e no.
SCOTT: Il legame è come quello di una famiglia. Ma ci sono famiglie piene di problemi.

Qualche giorno dopo, Scott mi ha scritto una lunga email: “ Ho conosciuto Sergio Leone e il suo assistente-traduttore Brian Freilino in un hotel a New York, un posto di gran lusso. Avevo già passato la prima selezione, al primo provino. Quel giorno Sergio non ha detto una parola, mi ha solo guardato, credo che ci fosse anche Fabrizio (Sergenti Castellani, l’assistente alla regia, ndr). Mi hanno fatto dire qualche parola, tutto qui. Diversi mesi dopo, Cis Corman, la direttrice del casting, mi ha chiamato a un provino vero, in cui si leggeva il copione. Credo che sia questo il momento in cui ho saputo che il protagonista era De Niro, che avevo visto in Toro scatenato e che era già un mito. Ovviamente ero eccitatissimo. Non sapevo ancora se fossi in corsa per fare Max oppure Noodles. Sono andato alle audizioni di Cis una volta la settimana per tre o quattro mesi. Non finivano mai. Poi un nastro che era stato spedito in Italia andò perso... Ricordo che Cis mi diceva: «Non preoccuparti se ci sono tanti altri in corsa per fare il film, tu concentrati sulla parte — lei diceva “ paht” , aveva un tortissimo accento della Costa Est — tu devi essere un ragazzo molto cattivo, orribile. Mi guidava, mi spingeva, mi sfidava. Poi la svolta: la chiamata finale! L’appuntamento era in un appartamento di Manhattan, in una brownstone (tipica costruzione elegante in pietra scura, ndr), forse era la casa dell’attrice Ruth Gordon. Erano lì tutti i finalisti per i ruoli dei ragazzi, ma non le femmine. Jennifer Connelly non c’era. Ci avevano chiesto di vestirci un po’ in stile anni ’20. Siamo rimasti diverse ore, eravamo quindici o venti. C’erano Cis, Sergio, Brian, Fabrizio, non so chi altri. No, De Niro non c’era. Quella sera stessa mi chiedono se mi va di andare a Montréal per una selezione finale. Che domanda, dopo tutta la fatica che avevo fatto... Certo che vengo. Così l’ostacolo seguente è Montreal. Eravamo io, Rusty (Jacobs, il giovane Max), Adrian (Curran, “ Cockeye” ), Noah Moazezi (il piccolo Dominic), Mike Monetti (Fat Joe da piccolo), Brian Bloom (il giovane Patsy), quelli che poi hanno fatto il film. E per un giorno intero ci hanno fatto lavorare con i costumisti e i truccatori. Abbiamo provato diversi costumi. «Mettiti questo, togliti quello, prova quel cappello, ora un altro». Mi hanno fatto un test del neo che è durato diverse ore, con nei leggermente diversi che dovevano assomigliare il più possibile a quello di De Niro, finché Sergio ha scelto: è questo il neo giusto. L’uomo dei nei si chiamava Enzo (Vicenzo Cardella, il parrucchiere, ndr). È arrivata la sera, e ancora non una parola, nessuna conferma. E i ragazzi erano ancora tutti lì, e pure un agente che forse rappresentava Rusty. Non ce la facevo più. Sono tornato nella stanza da solo, credo che lì dentro ci fossero solo Fabrizio e Sergio, nessun altro. Chiedo a Fabrizio: «La parte è mia?». Fabrizio traduce la mia domanda a Sergio, che non dice nulla, rimane immobile, mi guarda con le mani in tasca e fa un piccolissimo cenno di assenso con la testa, forse due, che per me hanno avuto esattamente lo stesso suono della parola magica: successo. Così è finita una maratona e ne è iniziata un’altra, che da Bayside, Queens, mi avrebbe trasportato a Montréal e poi a Brooklyn, Roma e Venezia... A questo punto lo dicono all’agente, che lo dice agli altri ragazzi e indovina un po’ scopriamo così che l’indomani saremmo stati tutti sul set a girare! Sorpresa! Così il giorno dopo giriamo la famosa scena: “ Ecco i vostri soldi, signore” , quella in cui diamo fuoco all’edicola dei giornali. La scena perfetta per dare il via alla storia. Il fuoco è celebrazione, e quella scena fu una specie di cerimonia di iniziazione per tutti quei ragazzi di New York che avevano appena avuto la loro prima parte in un film vero, un film con Robert De Niro” .

Sei mesi fa; Scott Schutzman ha rivisto C’era una volta in America. Ne abbiamo parlato per due ore, l’altra sera, al telefono tra Milano e l’America: «Quando accoltello Bugsy, dopo che lui ha ammazzato Dominio, ora riconosco sulla mia faccia tutta la rabbia che avevo dentro in quella fase della mia vita. Io ero molto più simile a Max che a Noodles, ero più estroverso e chiacchierone che represso e taciturno come il mio personaggio, ma in quella scena mi rivedo perfettamente. Al 100%. Quello sono io, altro che cinema, altro che recitazione». Gli ho chiesto di raccontarmi la sua vita, prima e dopo il film: «Ero un bambino molto solo, con una madre che soffriva di disturbo bipolare e che è morta quando avevo 12 anni, nel momento esatto in cui la mia carriera d’attore muoveva i primi passi. Per questo, quando Leone mi scelse, decisi di lasciarmi tutte le infelicità alle spalle adottando un nuovo nome: da Schutzman avevo provato solo vergogna e umiliazione. Volevo una nuova identità, che mi identificasse come attore, non come ragazzo incasinato cresciuto in una famiglia allo sbando. All’agenzia mi suggerirono Tiler: mi sembrava suonasse bene, e poi uno Scott Hunter (Hunter è il mio secondo nome) era già iscritto al sindacato degli attori. Uno Scott Tyler c’era già, e divenni Tiler. Ero cresciuto da ebreo, ma la mia educazione non era stata per nulla religiosa: la cosa più religiosa che ho fatto è stato partecipare, con i miei due fratelli maggiori, a un campo estivo sionista, ma sono sicuro che mio padre ci ha mandati li solo perché era quello che costava meno. Ho fatto il Bar Mitzvah ma probabilmente quello è stato l’unico giorno nella mia vita in cui sono andato in sinagoga. Lo dimostra anche il cast voluto da Leone Robert De Niro, James Woods, William Forsythe, Tuesday Weld, Mike Monetti, Jennifer Connelly — essere ebreo non era un requisito per fare C’era una volta in America. Molto più importante, almeno per me, è stata la mia infanzia sbandata. Ero un ragazzo di strada senza direzione, uno che non andava a scuola e rubacchiava nei negozi, un clown. Credo che questo mi abbia aiutato molto a entrare in relazione con il problematico, solitario, guardingo e violento Noodles. E poi naturalmente Cis Corman, la casting director, una delle grandi signore del cinema. Sempre, sempre, sempre lì a incitarti a essere vero, autentico, e a non crederti chissà chi. Se solo l’avessi avuta al mio fianco nella vita anche dopo il film... Forse avrei avuto una carriera diversa. Dopo il film mi sono sentito perduto e alla deriva esattamente com’ero prima. Tempi difficili. O, sempre per citare Dickens, era il migliore dei nostri momenti, ma anche il peggiore».

Era il cinema, era la vita: «Il cinema, quel film, mi ha salvato la vita, ma me l’ha anche rovinata. Chi lo sa, avrei potuto sbandare molto più di quanto abbia fatto: essere Noodles, essere il giovane De Niro, ha dato un senso alla mia esistenza. Ma mi ha anche dato un falso sentimento di appartenenza. Quando ho avuto la parte, più o meno consciamente mi sono sentito arrivato. Non ero più il ragazzo sperso, “ the lost kid” , ero speciale! Ero un attore, stavo recitando in un film che avrebbe fatto storia. E finalmente avrei avuto la famiglia che non avevo mai avuto prima, la famiglia dello show-business, in cui sarei entrato trionfalmente come quello che era stato De Niro da piccolo. Era un’illusione, ma non è solo questo: è che quando il film è miseramente fallito negli Stati Uniti, smontato, rimontato, accorciato dai produttori, disconosciuto da Leone, ignorato dal pubblico, ed è diventato una barzelletta, una colossale perdita di tempo, un flop, tutte le mie certezze divennero ridicole tanto quanto il film stesso. Ci penso spesso: se alla proiezione di prova, a Boston, non ci fosse stato il brutto tempo, se solo il proiettore non si fosse rotto, forse il destino del film in America sarebbe stato diverso e così pure la mia vita. È bizzarro, a proposito di un film che parla proprio del fato... Io avevo investito tutto il mio ego, in quel lavoro. Ne uscii distrutto, per riprendermi ci vollero anni, anni di depressione, droghe, smarrimento».

Ora Scott Schutzman, che ha riconquistato il suo vero nome, lavora come psicologo in un centro di recupero per tossicodipendenti lungo il fiume Hudson, a un’ottantina di miglia da New York. Per anni ha insegnato recitazione, poi s’è rimesso a studiare, da Los Angeles è tornato sulla Costa Est e ha dato l’ennesima svolta alla sua vita. A 44 anni, in C’era una volta in America coglie ogni volta nuove verità: « È un film impossibile da definire. Parla di gangster, ma nessuno sarebbe così pazzo da considerarlo un gangster movie. È un film esoterico, ambiguo e inafferrabile come la vita: Max e Noodles sono due aspetti estremi dell’animo umano. Solo ora me ne rendo conto: gli americani non avrebbero potuto mai capirlo fino in fondo. Non parla di New York, parla dell’idea di New York, del mito di New York. L’urlo: “ Fumo, fumo” è uno dei ricordi più chiari e forti che ho, dei giorni di ripresa. C’era sempre fumo in scena, con quell’odore sgradevole che è impossibile dimenticare: tutta la storia si svolge dentro la nebbia dell’allucinazione, è come se il fumo della pipa dell’oppio di Noodles avesse avvolto ogni cosa. È un film che appartiene al 100% al suo regista, è lui che l’ha visto, immaginato, realizzato. E un sogno, ed è il sogno di Sergio Leone».

Si torna sempre lì, al grande e complicato Leone, un uomo difficile da amare e impossibile da dimenticare: «Ancora oggi, senza sforzo, sono in grado di imitare perfettamente certi suoi gesti, un movimento particolare delle mani, il modo in cui si mordeva il labbro inferiore. Parlava pochissimo, ma si faceva capire molto bene. Era un uomo teso, che scaricava le sue ansie nel cibo. James Woods dice che l’hanno ucciso i problemi che il suo film ha incontrato in America, gli hanno letteralmente spezzato il cuore. Non so, forse è vero, ma è anche vero che lui, come il suo film, arrivavano da un altro mondo, dagli anni ’70, l’epoca dei grandi registi, di Scorsese, Altman, Coppola, Rafelson. E che C’era una volta in America, almeno da noi, in America, è uscito fuori tempo massimo, nel 1984, ai tempi di Ronald Reagan, e quando Michael Cimino, con il fallimento de I cancelli del cielo, aveva ucciso il cinema d’autore. Vuoi sapere un’ultima storia, divertente e triste al tempo stesso? Sai che cosa mi ha fatto veramente soffrire? Non essere invitato alla première di Cannes, quando la mia partner, Jennifer Connelly, invece c’era. Leone la adorava, io lo facevo incazzare. Non che avesse torto, sul set me ne andavo appena potevo, mi facevo aspettare da tutti gli altri, ero indisciplinato e ribelle. Non facevo quello che mi chiedeva di fare, lo rendevo nervoso, e lo sapevo. Jennifer, invece, aveva sempre i genitori con sé, era molto seguita e diligente. Come il giovane Noodles, rispetto alla mia Deborah ero anch’io uno scarafaggio. Un casting perfetto, davvero».