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 2012  luglio 20 Venerdì calendario

2 articoli ERCOLANO Davanti alla fontana di Ercole, Hans, un giovanottone di Brema alto quasi due metri, scarica sulla sua testa la minerale comprata all’ingresso dell’area archeologica

2 articoli ERCOLANO Davanti alla fontana di Ercole, Hans, un giovanottone di Brema alto quasi due metri, scarica sulla sua testa la minerale comprata all’ingresso dell’area archeologica. «Questa fontana era stata costruita proprio per ristorare chi passava da qui» dice divertito Luca, la sua guida, davanti al faccione del figlio di Giove, che come duemila anni fa continua a guardare verso il mare ma non sputa più acqua dalla bocca. Diventerebbe una tappa forzata, in uno dei giorni più caldi degli ultimi cinquant’anni. Ercole contro Minosse, la forza contro il grande caldo che ha arroventato l’Italia. Ma che sembra non scoraggiare i turisti: a metà settimana, agli scavi di Ercolano c’è il pienone. Più della media, che pure porta qui quasi 300 mila visitatori all’anno tra gli oltre 41 mila ettari di rovine sepolte dall’eruzione del Vesuvio in una notte d’estate del 79 dopo Cristo. «A Pompei c’è stato uno sciopero del personale e molti tour operator hanno dirottato qui i loro clienti», ci spiegano lungo il Decumano Massimo, da un anno restituito per intero alla comunità. Ma non è solo per quello. L’eruzione che ricoprì Pompei di cenere e lapilli, investì in pieno la ricca Herculaneum che sorge proprio alle pendici del Vulcano: lava e fango bollente penetrarono ovunque diventando roccia tufacea. Per questo, a differenza di buona parte dei siti archeologici nel mondo, chi visita Ercolano sa di trovare anche travi di legno e arredi originali, così come il magma li aveva ricoperti duemila anni fa. Allo stesso modo, molti edifici sono rimasti a due o più piani in altezza. Il più suggestivo è Villa dei Papiri, appartenuta al suocero di Giulio Cesare, Lucio Calpurnio Pisone, dove fu ritrovata una ricca biblioteca di quasi 2000 rotoli di papiro carbonizzati. Paul Getty, il magnate del petrolio, se ne innamorò a tal punto da farsela riprodurre, nel 1968, sulla collina di Santa Monica, in California, dove oggi ha sede il Getty Museum. Pompei ed Ercolano, vittime gemelle del Vesuvio, adesso conoscono destini diversi. Hans e i suoi compagni di viaggio non trovano cani randagi lungo la loro passeggiata tra i resti di Hercolaneum. Niente infiltrazioni nelle domus, né crolli. Nemmeno una foto ricordo davanti alle macerie, non quelle del cataclisma ma quelle dell’incuria burocratica, che sono oggi l’ultima attrattiva di Pompei. Ci sono toilette pulite, informazioni chiare, personale cortese. Eppure appena dodici anni fa, Ercolano era in condizioni disastrose. Diverse case erano puntellate, molte strade non erano accessibili. Là dove non era riuscito il vulcano stava arrivando la miopia delle istituzioni. Cronache di un altro millennio. Perché la svolta arriva proprio nel 2000. David W. Packard, l’erede dell’impero informatico di Palo Alto, confida al suo amico archeologo Andrew Wallace-Hadrill, l’ex direttore della British School di Roma, l’interesse a finanziare la conservazione di un monumento in Italia. Non è un’idea di marketing per promuovere stampanti e software. Packard ha sessant’anni, ed era passato a occuparsi dell’azienda di famiglia dopo gli studi classici e dopo aver insegnato filologia alla Ucla, l’Università della California. Ma la passione è rimasta intatta. Attraverso la sua fondazione, la Packard Humanities Institute, digitalizza la letteratura latina e greca. E sente che è arrivato il momento di puntare sull’archeologia, il suo primo amore. Wallace-Hadrill lo accompagna ad Ercolano dove il soprintendente di allora, Pietro Guzzo, aveva già pronto un piano di interventi strutturali: bisognava agire subito e in maniera massiccia. Mancavano, al solito, le risorse. Rispetto a Pompei, però, c’erano volontà ed organizzazione. «Non è facile trovare persone che si mettono al servizio del pubblico. Packard, invece, capì subito che per Ercolano era più importante un programma di conservazione di tutto il sito, piuttosto che un intervento isolato e più appariscente», racconta a "l’Espresso" Maria Paola Guidobaldi, direttrice degli scavi. Nasce così l’Herculaneum Conservation Project, una collaborazione tra il Packard Humanities Institute e la Soprintendenza per i Beni Archeologici di Napoli e Pompei, con il supporto della British School. In poco più di dieci anni Packard mette sul piatto circa 16 milioni di euro e ridà vita alla città grazie a un gruppo di lavoro con un età media inferiore ai 40 anni, diretti proprio da Andrew Wallace-Hadrill, fianco a fianco con donne e uomini della soprintendenza. Anche qui il confronto con la città gemella è triste: con 80 milioni di fondi pubblici, Marcello Fiori, il commissario imposto dall’ultimo governo Berlusconi nella gestione di Pompei, è riuscito nell’impresa di spendere quasi tutto senza risolvere nemmeno uno degli atavici problemi. Oggi, l’ottanta per cento degli edifici di Hercolaneum è stato dotato di coperture, sono diventate visitabili una decina di case. Soprattutto, è stato messo in sicurezza l’intero patrimonio. Affreschi e mosaici sono al riparo dal guano dei piccioni, le acque piovane canalizzate, il sistema fognario romano ripristinato. Quel che non è riuscito a Pompei, è stato realizzato a 15 chilometri e venti minuti di auto. Stessa soprintendenza, stesso Paese. Un cartello in due lingue, posto all’ingresso, illustra gli interventi realizzati e quelli in atto: "What are we doing", cosa stiamo facendo. È l’unica iscrizione dove si cita lo sforzo di Packard. Senza loghi aziendali, of course. Restano aperti quattro cantieri di restauro. Un quinto si occupa del recupero dell’intera Insula VI, dove viene sperimentata una tecnica innovativa di manutenzione. Così, mentre si salva un patrimonio, si testano nuovi modelli. Perché Packard non sembra avere intenzione di abbandonare Ercolano. Ogni quindici giorni, riceve in California una relazione tecnica sull’attività e, almeno una volta all’anno, viene in Italia a constatare di persona che tutto prosegua secondo programma. L’ultima volta, appena un mese fa quando ha confidato il nuovo sogno: dopo i lavori, vorrebbe rendere il più possibile fruibile Villa dei Papiri. Non la copia californiana, ma quella originale, all’ombra del Vesuvio. E Pompei chiama i palazzinari cinesi C. P. Era dai tempi di Bartali che i francesi sognavano una fuga così. Eclatante, dirompente, irriverente. E stavolta, per riprendere Paolo Conte, a incazzarsi sono stati gli italiani. «Il periodo economico attuale non è il migliore per intraprendere azioni di mecenatismo», ha scritto a metà marzo Joelle Ceccaldi-Rynaud, presidente dell’Epadesa, al ministro Lorenzo Ornaghi, annunciando che l’intenzione degli imprenditori del distretto della Défense di Parigi di investire quasi 200 milioni negli scavi di Pompei, non c’era più. Quel giorno, il telone bianco picchettato al suolo che ancora ricopre le macerie della Schola Armaturarum crollata due anni fa si è curiosamente staccato e ha cominciato a sventolare. Quasi una resa: bandiera bianca. Dal ministero, dove si son sentiti presi in giro dai transalpini, sono andati giù duro: «Spiace aver perso tempo: quella dei francesi si è rivelata una proposta molto superficiale». E hanno ribadito l’impegno del governo a investire subito 105 milioni di euro dell’Unione Europea con il Grande Progetto Pompei. Già a settembre dovrebbero essere assegnati i primi lavori. Intanto, sulla città di Plinio si stagliano ombre cinesi. Sono quelle della delegazione del Distretto Jiading di Shangai che ha sorvolato l’intera area accompagnata dal leader degli industriali napoletani, Paolo Graziano. «È la prima volta che veniamo a Pompei», ha detto il loro portavoce, «vogliamo approfondire la conoscenza del territorio e valutare quale contributo possiamo dare al progetto». Sullo sfondo, l’ipotesi di interessi diversi da quelli legati al recupero e alla conservazione del monumento: più che la città archeologica, è quella moderna a stuzzicare gli appetiti di imprenditori italiani e stranieri. Gli industriali napoletani hanno tirato fuori dal cassetto un piano per la rinascita "extramoenia" di Pompei: 500 milioni di euro, 5000 posti di lavoro, alberghi per 1500 posti letto, un bosco da 300 mila metri quadri. «Ora, per Pompei il progetto c’è», dicono, «ci sono pure gli investimenti privati. Stato e Regione devono farsene carico e farlo diventare progetto leader». L’esatto opposto del metodo Packard.