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 2012  luglio 20 Venerdì calendario

LA CASA DOVE NERUDA COLLEZIONAVA SOGNI E SOUVENIR

Ogni mattina, in una caletta sperduta della costa del Cile, un uomo corpulento, un berretto da marinaio calcato sul largo viso pensoso, suonava la tromba e alzava la sua bandiera, un pesce bianco in campo azzurro. Era il poeta più amato del Sudamerica, Pablo Neruda.
Nel 1939, quando aveva iniziato a comporre il Canto General, aveva sentito il bisogno di un nuovo posto di lavoro. Aveva trovato quel “luogo sconosciuto a tutti” sull’annuncio di un giornale. Un vecchio capitano gli aveva venduto quello che allora era un rudere, con un giardino di quasi cinquemila metri quadrati. A poco a poco la casa si era ingigantita, arrivando a toccare i cinquecento metri quadri. Era stato un lento bricolage a formare quella che sempre più sembrava una nave di legno e pietra, arenata sulla piccola baia deserta. «Questa casa è la mia barca ancorata sulla terra». In quelle cabine di terraferma le grandi finestre si alternavano agli oblò e una serie di mappe, sestanti e bussole era pronta per ogni fantasiosa navigazione. Neruda non si avventurava sulle onde, ma la loro vista gli era indispensabile. «Non sono stato un navigante, ma un osservatore intransigente delle alternative dell’oceano». Le mareggiate lo spaventavano e lo inorgoglivano, ma l’aperitivo con gli amici lo prendeva in una barca saldamente posata sull’impiantito.

Quindicimila conchiglie. Nei suoi viaggi in ogni parte del mondo aveva accumulato un tesoro inestimabile di conchiglie, raccolte «per scambio o per acquisto, per regalo o per furto». La marea del suo desiderio aveva depositato nel rifugio di Isla Negra conchiglie antartiche e mitili cubani, esemplari zafferano e gusci azzurri e violetti. A Pechino gli avevano addirittura regalato uno dei due rarissimi esemplari del Tatcheria mirabilis. Neruda gustava «il piacere tattile della loro prodigiosa struttura, la purezza lunare di una porcellana misteriosa». Quando furono quindicimila, decise di salvare la casa da quella silenziosa invasione e le regalò all’Università del Cile.
Isla Negra la preferiva d’inverno, «quando una strana fioritura si veste con la pioggia e il freddo di verde e di giallo, di azzurro e di porpora». In quella dimora nulla era stato lasciato al caso. Anche i rumori erano stati chiamati ad arredarla. Dal silenzio della biblioteca si passava, nella camera da letto, al borbottio della risacca e al tintinnio della pioggia sul tetto dello studio.
Il poeta era un collezionista bulimico. «Sono onnivoro di sentimenti, di esseri, di libri, di avvenimenti e di battaglie. Mi mangerei tutta la terra. Mi berrei tutto il mare». Sculture africane, stampe cinesi, Budda, bastoni da passeggio, bottiglie, quadri di amici, souvenir di viaggio del suo passato di console cileno a Ceylon, a Giava e in Birmania, maioliche, bambole di Marbella, un teschio. Neruda era un Robinson che raccoglieva i resti del suo passato e le reliquie dei sogni. Un grande cavallo di legno, ammirato da piccolo in una segheria, troneggiava in una stanza costruita per lui e chiamata “lo zoo”, tra antichi quadri di animali dipinti e porcellane dell’Estremo Oriente, accanto al povero scrittoio su cui l’adolescente aveva scritto le prime poesie. Nello studio, scaldato da un camino di lapislazzuli, le navi in bottiglia navigavano su ogni genere di oggetti di vetro e di porcellana, incunaboli, astrolabi, farfalle e navi di fiammiferi. L’oceano non poteva avere segreti per il monumentale cannocchiale che, insieme a un mappamondo settecentesco, era il pezzo forte della stanza. Nel corridoio, maschere primitive avevano rimpiazzato quelle polinesiane perse a Madrid, nella guerra civile spagnola. «Dorate, cinerine, pomodoro, con sopracciglia d’argento, azzurre, infernali», probabilmente, congetturava, erano state fucilate dai miliziani. Una collezione di vecchie cartoline erotiche dava al bagno un profumo proibito. «Nelle sue case», spiega l’amico García Márquez, «si viveva avvolti in una atmosfera di fantasia ed immensa sensualità». Neruda desiderava gli oggetti con uno struggimento infantile, come quando implorava un amico di comprargli due tamburi in un negozio di Londra. La vita, gli spiegava, era invivibile senza un tamburo. «Ho raccolto giocattoli piccoli e grandi senza i quali non potrei vivere. L’uomo che non gioca ha perso per sempre il bimbo che viveva in lui e che gli mancherà molto. Anche la mia casa l’ho costruita come un giocattolo e ci gioco dalla mattina alla sera». Aveva una flotta di velieri con le vele spiegate dentro le loro bottiglie di vetro, riproduzioni dei più famosi bastimenti che approdavano in Cile. Possedeva due versioni della “Maria Celeste” che, «mistero dei misteri», una notte si era trasformata in una stella. Ma i suoi «giocattoli più grandi» erano le polene del soggiorno, fotografate da tanti giornali e «discusse con benevolenza o con rancore». Quelle «statue marine, effigi dell’oceano perduto» erano messe in modo da guardare il mare. Una addirittura, invidiatagli da Allende, aveva occhi di maiolica che durante l’inverno si riempivano di lacrime. Un’altra l’avevano scoperta in giardino, oggetto di un culto ingenuo dalla gente del posto. «Forse negli esseri umani si sveglia un sentimento religioso davanti alle immagini, cristiane o pagane che siano».

Il rifugio dove lavorare. Si era fatto costruire una capanna «di solidi tronchi e fragili finestre di vecchie chiese», un rifugio senza acqua né luce, che si stagliava sul grigiore della scogliera, dove la tempesta scatenava onde alte decine di metri. Ogni giorno andava a lavorare in quel rifugio. «Non è facile arrivarci né rimanerci». Lì riempiva della sua grafia quei quaderni legati con il filo verde. Gli tenevano compagnia i suoi cani, semiaddormentati su una vecchia pelle di tigre tarmata, ma pronti a sbarrargli l’uscita, come avessero voluto costringerlo a lavorare. Un giorno l’aveva trovata scassinata. Mancavano poche cose, un’amaca rotta, qualche bicchiere, tre libri amatissimi, tra cui l’edizione aldina di Shakespeare e un volume di poesia inglese su cui aveva scritto a mano versi «che adesso leggeranno solo i ladri».

Un tesoro di libri antichi. Neruda aveva iniziato la sua carriera di bibliofilo comprando a rate una rara edizione di Góngora. Per leggere le opere nelle pagine che i loro autori avrebbero potuto vedere, aveva fatto incessanti spedizioni nelle librerie antiquarie del mondo. Poi i premi, susseguendosi, gli avevano consentito acquisti sempre più preziosi, da antichi libri di poesia a grandi libri di botanica o di zoologia riccamente illustrati. Era orgoglioso di un Molière stampato per il figlio del re di Francia. Ma il suo tesoro erano dei manoscritti di Rimbaud. Quando però, arrivato a cinquemila volumi, ne aveva fatto dono all’università cilena, così come per le conchiglie, era scoppiata una polemica contro quel donatore sovversivo e anche la scomoda donazione era scomparsa nei depositi dell’istituzione.
Si mangiava nella sala da pranzo dominata dal vasto tavolo di araucaria, mentre il sole sfumava i vetri colorati delle bottiglie del bar. La sua difficile infanzia e la giovinezza, in cui era «quello studente poeta dalla cappa scura, magro e denutrito» che pesava «meno di una piuma nera», lo avevano reso molto goloso. Gustava infinitamente i prelibati piatti della moglie, pronto, durante un pasto, a chiederle: «Presto, Matilde, acchiappa il vassoio e mettimi da parte il pezzo migliore!». Prima al suo fianco c’era stata una creola olandese «alta e dolce, completamente estranea al mondo delle arti e della letteratura». Poi per diciotto anni una pittrice, Delia, la “formichina” di vent’anni più anziana di lui, «passeggera dolcissima, filo di acciaio e miele che legò le mie mani negli anni sonori». Era stata lei a introdurlo al comunismo. Infine le era subentrata la rossa, minuta Matilde – «la terra e la vita ci hanno uniti» – incontrata nel 1949. Per anni, per non turbare Delia, Pablo aveva tenuto segreto il nuovo amore. Persino il libro di versi in onore di Matilde, Los versos del capitán, era uscito anonimo, ma alla fine la verità era trapelata. A Neruda piacevano l’elegante fragilità, le «minuscole mani» di quella cantante che intonava «con voce potente» le sue canzoni. Lei lo sopportava «con ardente pazienza» e gli aveva dato «tutti i fiori, tutti i frutti fragranti della felicità».
Pablo, ricorda García Márquez, era «grasso, simpatico, pettegolo, vanitoso», ma si sforzava di mettere a suo agio gli interlocutori intimiditi dalla sua fama. Detestava i discorsi astratti. «Faceva il possibile per apparire semplice, diretto, terreno». Però a volte il suo egocentrismo poteva irritare anche gli ammiratori. Un suo traduttore, il geniale Roger Caillois, trovava che declamasse pontificando i suoi versi «con modi da istrione insopportabile», lanciando occhiate di rimprovero alla consorte ogni volta che un rumore turbava la sua lettura.

L’ammirazione per Stalin. Come diplomatico e come rivoluzionario, Pablo aveva viaggiato molto. «Ho dovuto soffrire e lottare, amare e cantare, ho conosciuto il trionfo e la sconfitta, ho provato il gusto del pane e quello del sangue. Cosa può volere di più un poeta?». Col tempo era diventato più sedentario. «Mi piace viaggiare senza muovermi di casa, senza allontanarmi da me stesso». Quando il suo nome aveva cominciato a circolare per il Nobel, era stato costretto per sottrarsi ai giornalisti a chiudere il portone con un gigantesco catenaccio di bronzo, «tanto bello quanto poderoso». Malgrado le rivelazioni del XX Congresso del Pcus, non aveva allentato la sua fede nel comunismo. Per resistere guardava «al di sopra delle tenebre, a me ignote» di quei torbidi anni al primo Stalin, «uomo di principi e bonario, titanico difensore della Rivoluzione». In fondo, minimizzava, aveva dedicato una sola poesia a «quella poderosa personalità». Anche in quel paesino, dopo anni di soggiorno e malgrado la sua immensa popolarità, le autorità diffidavano di quel sovversivo e la sua cameriera si era vista rifiutare dal parroco il permesso di averlo come padrino del figlio.
Neruda non sapeva resistere ai dolori altrui. Neruda non rinunciava a niente, nemmeno ai morti. I nomi dei suoi amici scomparsi erano incisi a fuoco sulle travi di legno della biblioteca. Più vicina di tutte, la foto dell’amico García Lorca. «Era una tenerezza del tutto sovrumana. La sua persona era magica e bruna, e portava la felicità». Su un’altra parete, si stagliavano le foto d’epoca di due “angeli ribelli”, Rimbaud e Majakovskij. Neruda aveva anche due magnifici dagherrotipi di Baudelaire e di Poe, dono di un simpatico ammiratore che si era in seguito rivelato una spia fascista.
Pablo aveva dei principi per tutto. Per lui ogni costruzione costiera doveva cominciare non dalla prima pietra, ma da un’ancora. «Niente, sosteneva, è più fondatore [o fondante?] di un’ancora» e ne aveva fatto portare una da un trattore su un’altura del giardino ben curato. Una struttura di legno reggeva due grandi campane di quelle che una volta le navi usavano per annunciarsi nella nebbia, poco lontano da una locomotiva a vapore rossa e nera dell’800, omaggio alla memoria del padre ferroviere. Isla Negra era lontana da tutto. Per incorniciare un quadro o riparare una serratura bisognava fare decine di chilometri, per questo Neruda aveva sperato di lasciare al popolo cileno quel suo monumento alla gioia. «Non voglio che muoia la mia eredità di gioia». Ma quella nave di pietra non era abbastanza lontana per sfuggire alle persecuzioni di Pinochet. Chi era andato a trovarlo dopo la devastazione compiuta dagli agenti di Pinochet, lo aveva trovato desolato, seduto insieme alla moglie, davanti alla televisione che trasmetteva la propaganda del regime. Nessuno aveva nemmeno provato a rimettere in ordine, mentre il poeta stravolto dialogava da solo con la televisione, insultandola e smentendola. Al graduato che, durante la perquisizione, gli aveva chiesto: «Ebbene, don Pablo, qui nasconde armi o qualcos’altro di pericoloso?», aveva risposto: «Sì, la poesia: è molto pericolosa!».
Giuseppe Scaraffia