Massimo Gaggi, Sette 20/7/2012, 20 luglio 2012
IL FANTASMA DI CARTER E UN SOGNO CHE ORA RISCHIA DI SVANIRE
Il fantasma di Jimmy Carter, presidente democratico di un solo mandato negli anni Settanta del secolo scorso, agita i sonni di Barack Obama. Fino a qualche tempo fa gli pareva solo una minaccia remota, ma ora – a poco più di 100 giorni dal voto per la Casa Bianca – è sempre più evidente dal basso livello di consensi nei sondaggi che il leader progressista sta pagando cara la crisi economica. Tutti sanno che non è dipesa da lui, che l’ha ereditata, ma i più sono delusi dal modo in cui l’ha gestita.
Mai come stavolta un’elezione presidenziale che sarà sul filo del rasoio (Obama e Romney appaiati nei polls al 47 per cento) si gioca sui problemi interni dell’America: l’impoverimento delle famiglie e il lavoro che manca, molto più della sicurezza, la lotta al terrorismo, l’Afghanistan o il Medio Oriente. Eppure in questo testa a testa un peso decisivo ce l’ha proprio l’Europa. Quello di un effetto-contagio proveniente da Oltreatlantico è un timore che Obama, spaventato della recessione che colpisce molti Paesi della Ue, ha manifestato più volte. Ma l’avvitamento del nostro continente può avere un impatto che va oltre qualche posto di lavoro perduto in più: fino a qualche mese fa l’attacco dei repubblicani contro il presidente, descritto come un politico con la testa europea che sulla scia della sua riforma sanitaria vuole imporre agli Usa un modello socialdemocratico fallito, era percepito dai più come un eccesso ideologico o un espediente dialettico da usare per incendiare il clima elettorale.
Ora, però, lo spettacolo quotidiano di un’Europa che sprofonda in una crisi di sistema apparentemente senza vie d’uscita consente ai repubblicani di giocare in modo più nitido la carta della contrapposizione di due modelli: da un lato quello del libero mercato che produce ricchezza, sostenuto da Romney, dall’altro quello del welfare assistenziale che pensa solo a redistribuire la ricchezza prodotta da altri, sostenuto da Obama. È uno schema molto semplificato se non addirittura rozzo, che ignora volutamente i requisiti minimi di equità prevalenti nei Paesi più avanzati e dimentica che anche molte amministrazioni repubblicane, da Eisenhower a Nixon, sono state stataliste e assistenzialiste, mentre il boom del deficit pubblico, prima che con Obama, è arrivato con George Bush.
Ma una campagna dei conservatori condotta sotto la bandiera del liberismo che ancora un anno fa poteva apparire stonata, visto anche il fresco ricordo degli eccessi del capitalismo finanziario e del crollo di Wall Street, riacquista efficacia e vigore proprio grazie al naufragio di un’Europa che, se non proprio socialista come la dipingono i “falchi” repubblicani, è sicuramente percepita dall’America come statalista, burocratica e assistenziale.
Agli occhi di un osservatore europeo sembra quasi impossibile che un candidato repubblicano che difende a spada tratta gli sconti fiscali per i miliardari possa ottenere la maggioranza dei voti e sconfiggere un presidente che promette di esentare il 98% degli americani da ogni incremento del prelievo tributario.
Ma l’America è fiera della sua diversità anche se l’american dream della prosperità diffusa sta svanendo. E Romney stuzzica il suo orgoglio promettendo di fermare il declino economico restaurando le regole auree di un Paese che, dice, è diventato un faro di libertà e un campione di sviluppo per tutto il mondo premiando chi lavora duro, non con l’assistenzialismo. Giocando la carta dell’equità e della tassazione dei ricchi, Obama rafforza la sua presa sugli Stati operai e su quelli tradizionalmente progressisti, dalla California a New York, ma rischia grosso nei 7-8 Stati considerati in bilico tra democratici e repubblicani, decisivi per la corsa alla Casa Bianca. Il rischio che corre è quello di apparire un presidente rinunciatario e difensivo che davanti a una crisi di dimensioni bibliche non sa andare oltre misure difensive (protezione per i disoccupati, sanità per tutti, salvataggio dei municipi per evitare il licenziamento di insegnanti e pompieri) ma senza proporre grandi visioni.
Detto tutto questo, il percorso di Mitt Romney resta in salita. Può farcela, ma il suo sentiero è stretto perché, al di là dei sondaggi nazionali, contano i collegi elettorali dei singoli Stati. Qui Obama, al quale gli analisti attribuiscono 237 voti elettorali certi o probabili sui 270 necessari per essere eletto è in vantaggio su Romney, fermo a quota 203. Per farcela il candidato della destra deve vincere anche in Florida, Ohio e Virginia, i tre “pesi massimi” tra gli Stati in bilico.
Difficile ma non impossibile, soprattutto se il peggioramento della congiuntura e l’ulteriore avvitamento della crisi europea accentueranno il desiderio di molti americani di cambiare rotta.