Tiziana Sabbadini, Vanity Fair 18/7/2012, 18 luglio 2012
ATTENTI ALLE STELLE CADENTI
Si agita sulla sedia, accavalla e scavalla le gambe, le braccia che descrivono universi. Difficile immaginare un astronauta dal fisico imponente, come Paolo Nespoli, compresso nei pochi metri cubi delle navicelle spaziali, come racconta nel suo libro Dall’alto i problemi sembrano più piccoli. Ma era lì, oltre l’atmosfera, che voleva arrivare fin da piccolo. Per raggiungere la meta s’è lanciato nei Parà, è stato promosso Incursore - una specie di James Bond dell’Esercito - è partito per il Libano con il generale Franco Angioni. Poi, il salto: laurea in Ingegneria aerospaziale per entrare all’Esa, l’ente aerospaziale dell’Unione europea. E le missioni: sigillato nello Shuttle americano o nella Soyuz russa, ha raggiunto due volte la stazione internazionale.
Là dentro, lassù, non si è mai sentito prigioniero?
«Psicologicamente, la navicella è piccola, stai in posizione fetale per ore. Ma quando ci lavori e sei preso dagli strumenti, diventa casa tua, un posto che ti protegge. Se esci muori. Ci ho messo 50 anni per arrivare lì dentro. Ma come diciamo noi, se hai un grosso problema, lo dividi in tanti piccoli più affrontabili, e arrivi dove vuoi: io volevo volare alto».
Ha mai parlato con un carcerato? Come affrontare la reclusione?
«No, non ancora. Il carcere, com’è adesso, credo ti abitui a vivere dentro, non fuori. Se un prigioniero esce, deve lavorare, procurarsi da mangiare, vestire. Anche lui, se lascia il suo “abitacolo” dietro le sbarre, corre rischi. Certo, io ho scelto di vivere in uno spazio ristretto e per un periodo limitato, chi è in carcere no».
Voi astronauti, in più, avete il problema dei bisogni fisiologici in assenza di gravità.
«Gli americani hanno speso 26 milioni di dollari, negli anni Ottanta, per costruire il bagno a bordo, con un tubo aspiratore e un adattatore per ogni astronauta. I russi della Soyuz hanno una toilette più rustica: come in tutto, sono meno sofisticati ma più efficaci. La mia compagna di volo, Catherine Coleman, mi ha detto di aver avuto difficoltà con la pipì: “A voi uomini basta infilarvi nel tubo, io devo cavalcarlo, o resta tutto ai bordi”».
E dove va a finire quella pipì?
«Viene depurata fino a diventare acqua potabile, da bere durante il volo che, in una stazione, dura sei mesi. Un residuo poltiglioso però rimane e va nei rifiuti».
Come li smaltite?
«Ogni mese, alla stazione arriva un modulo di rifornimento, una specie di tir di rifornimento: cibo, abiti, esperimenti, ricambi. Viene svuotato in circa tre settimane e ogni cosa deve andare nel posto giusto. Finita l’operazione, si riempie il tir con le scorie: residui di pipì, contenitori della cacca ben sigillati, le scatolette del cibo vuote, le cose rotte».
Dove le buttate?
«Nell’atmosfera, che brucia tutto. Quindi, attenzione a chi esprime desideri sulle stelle cadenti: rischia di farlo sulla nostra cacca che s’incendia nello spazio».
Potremmo inviare i rifiuti di Napoli?
«No, costa troppo mandarli lassù».
Torniamo alla vita senza gravità: ha mai fatto sesso in orbita?
«Io no, ma tecnicamente è possibile, anche se è difficile trovare un angolo appartato. È un po’ complessa l’operazione di aggancio per via della mancanza di gravità, ma si può fare. Certo, deve proprio piacerti qualcuno. Ci sono gossip che i russi abbiano fatto test di accoppiamento. E credo che questa possibilità sia uno degli stimoli maggiori all’incremento dei viaggi spaziali da parte dei privati: matrimoni, viaggi di nozze...».
E concepire figli?
«No, perché fuori dall’atmosfera ci sono radiazioni forti e gli esperimenti su cellule embrionali hanno stabilito che sono pericolose per il loro sviluppo».
Sua moglie è gelosa quando è in orbita, visto che si può fare sesso?
«Sasha è tranquilla, quando volo. E anch’io lo sono: siamo una coppia serena. Magari la sento più attenta quando vede che ho una sintonia di troppo, a terra».
Come domina, nello spazio, il desiderio di vedere i suoi affetti?
«Adesso, dagli americani ai russi, sono tutti più attenti al problema dell’isolamento degli astronauti e hanno studiato la possibilità di avere una videoconferenza privata con la famiglia una volta alla settimana. Io che sono italiano, avevo chiesto che il sistema fosse installato non solo a casa di mia moglie e mia figlia Sofia, negli Stati Uniti, ma anche in quella di mia madre, a Verano Brianza, a un costo relativamente basso».
Durante il suo ultimo volo, l’hanno avvertita della morte di sua mamma.
«L’avevo vista cambiare nelle ultime videoconferenze. Me l’aspettavo, forse».
Non potevano tacere ed evitarle un dolore, visto che non poteva esserle vicino?
«Prima delle missioni chiedono se preferisci sapere le cose di carattere personale mentre sei in orbita. Io ho scelto l’apertura completa alle notizie».
Senza possibilità di scendere da lassù.
«Perdere un genitore, un figlio, un amico caro è un momento della vita che ti porta ad analizzare la tua vita, la loro, il tuo essere, che cosa ci stiamo a fare qui. Alla fine, la vicinanza fisica influisce relativamente sul dolore reale».
Come sono stati quei momenti?
«Ho sentito la mia famiglia stringersi attorno a mia madre. Lo ha fatto anche il paese dove lei viveva. Ho ricevuto perfino un saluto dal Papa. Mentre c’erano i funerali, con la navicella siamo passati sull’Italia e con l’equipaggio sono andato nella cupola del modulo, per guardare in basso. C’è stato un minuto di silenzio. Non mi sono sentito solo, nello spazio».
Ma queste missioni spaziali non sono troppo costose in tempo di crisi?
«Sono utili per la ricerca scientifica, per il ritorno tecnologico che hanno nella vita sulla terra. E per la passione di esplorare, profonda nell’animo umano. Se a mia figlia Sofia, tre anni, dico di stare ferma in una stanza mai vista, lei ci sta dieci secondi, poi riprende a esplorarla».
Lei è diventato esploratore dello spazio: ma com’è riuscito a passare dalla missione in Libano alla laurea in Ingegneria?
«Ero sulla nave di ritorno in Italia, quando mi si avvicina Oriana Fallaci, che avevo scortato nei suoi servizi in Libano. Mi fa: “Che cosa vuoi fare da grande?”. E io, che avevo 26 anni: “L’astronauta”. Mi disse: “Perché no?”. E quella risposta mi ha dato lo stimolo per superare gli ostacoli: imparare l’inglese e laurearmi in Ingegneria. I miei colleghi in Libano, al ritorno si erano regalati la Porsche, io l’iscrizione al Politecnico di New York».
Com’è l’Italia vista dall’alto?
«Bellissima, in una posizione ideale. Peccato la politica che la sta rovinando».
Per caso vuole fare come il suo collega Umberto Guidoni, ora esponente di Sel?
«No: ho una matrice cattolica e non riesco a sopportare gli inciuci politici».
Sogna ancora di tornare in cielo?
«Sì, ma ci sono nuove leve come Samantha Cristoforetti o Luca Parmitano: straordinari. Però, perché no?».