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 2012  luglio 20 Venerdì calendario

L’EREDITA’ DI ULISSE VALE PIU’ DELLO SPREAD

Forza, ai contravveleni! Segnalo in anticipo, essendoci coinvolto, una grande iniziativa del Piccolo, che non è tanto «evento culturale» (luogo comune colabrodo) quanto una possibile, augurabile, necessaria cura disintossicante. Nel trovarle, nel moltiplicarle, bisogna far presto perché la patologia è forte, e la gabbia mimica di vetro superbamente inventata da Marcel Marceau è tutt’altro che irreale. Un anno di cartellone (il suo direttore Sergio Escobar potrà dir meglio) dedicato dal Piccolo alla Grecia, incentrato sull’Odissea. Non sui bond! Non sulla Grecia dell’euro e roba simile! Fuori di lì, fuori da questa intossicazione permanente della finanza, del debito, delle banche, dei mercati dove l’unico oggetto trafficato è l’anima, è tutto quel che ci rende umani. Fuori dall’ossessione della crescita, del Pil, specchio di una ideologia senza oppositori, senza nessuno che resista, che gridi di cercare la verità rompendo il muro delle ripetizioni, delle formule pietrificate, che gridi di aver fame di Altro, perché Altro esiste! Perché siamo anime offese, e per medicina dell’offesa, facciamo «ali al folle volo», andiamo in cerca di Itaca, tra i mostri e le sirene guardiamo ad un’altra meta! L’Ellade eterna è soccorso eterno, medicazione permanente, pensiero, rivelazione sapienziale, purificazione (kàtarsis) senza farmaci, antidepressivo senza psicofarmaci, libertà vera al di là delle garanzie costituzionali. Il dono dell’Ellade, lo comprendiamo oggi dopo millenni di distrazioni, è stato la legge non scritta di Antigone che ci costituisce tutti cittadini autonomamente pensanti, cittadini di una Civitas Deorum che dà al cuore la pace, e mai il riposo morale di surrogato, che Manzoni aborriva.
«Dovunque vado la Grecia mi duole». Bel verso d’anima di Giorgio Seferis, che porrei a epigrafe di quanto vorrei fare a Milano. Perché a me dolesse un po’ meno, tenterò adesso di dire.
Ho un voto da formulare, fortissimo. Perché partisse dal Piccolo, in questa magnifica occasione, una crociata per l’abbandono radicale dell’assurda, imbecille, ignominiosamente incomprensibile pronuncia accademica (la detta erasmiana, regole da lingua morta), tuttora irremovibile dagli studiosi, tuttora scelleratamente impartita nell’insegnamento superstite delle nostre scuole.
Non far corrispondere foneticamente la nostra lingua al parlato vivente dei greci abitanti o in diaspora, un parlato che vive sul suolo ellenico da sempre — mutando, evolvendosi, necessariamente — è violentare brutalmente l’identità di un popolo, amputare l’essenziale di un rapporto che abbiamo, perfettamente pacifico, con una nazione vicinissima e amica. Nessun greco, se gli diciamo una qualsiasi cosa nel modo da noi imparato a scuola e nelle università, sarebbe in grado di capirci un’acca! Fate conto di pronunciare la lingua dominante (purtroppo onnipresente, onninvadente) tal quale è scritta nelle isole britanniche e in America, e provate a farvi capire da un anglofono: sareste oltraggiosi senza nessun costrutto, comunichereste più facilmente mediante l’alfabeto gestuale o un foglietto scritto. Ma un simile scempio è impensabile: per il Greco invece l’enorme divaricazione seguitiamo a mantenerla prosperosamente!
Certo, la trasmissione fonetica, come la semantica, non si sono fermate alle leggi di Solone: ma il nostro riferimento non può essere che l’unica certezza che abbiamo: la lingua parlata, la pronuncia vivente (la demotikì), suoni vocalici e consonantici musicalmente oggi impoveriti, ma vivi da Cipro a Creta, dall’Epiro a Rodi e a Tessalonica, dove sono ugualmente — secondo i gradi di alfabetizzazione e di cultura — familiari le canzoni di Theodorakis e del Rebétiko, i poemi di Kavafis e i romanzi di Kazanzakis, e non altrimenti intelligibili Iliade e Odissea, le storie di Erodoto e le tragedie di Euripide, la versione alessandrina della Bibbia e il Nuovo Testamento, da Michele Cerulario alle cerimonie dell’Athos.
Questo va ficcato in testa di chi viaggia in Grecia, poco o molto abbia imparato di neogreco: deve prima di tutto bagagliarsi di fonetica vivente, buttare via, di quanto gli è stato imposto dai professori, ogni residuo, ogni scoria, tutto. Catarticamente tutto.
Io credo che Leopardi non accettasse quella raccapricciante pronuncia, e non dubito che Ugo Foscolo, figlio di madre greca, nato nell’isola grecissima di Zacinto, parlasse, leggesse, citasse greco esclusivamente in fonetica di gente allora sul suolo ellenico viva. Ho anche la certezza che Niccolò Tommaseo, traduttore mirabile del Nuovo Testamento e dell’antologia bellissima, epica, dei canti popolari greci, d’amore e dei klefti della guerriglia antiturca, Niccolò figlio d’Oriente e d’Occidente secondo la migliore tradizione triestina — sentisse in sé la vita di ogni parlante greco del suo tempo, tanto da rigettare le orride cacofonie dei nostri frequentatori di spiagge e friggitorie greche, ostinati nella propria ignoranza di poche regole facili come Cappuccetto Rosso, più facili del toscano di Collodi.
Oh Piccolo! Mantieni anche stavolta il tuo impegno di Teatro d’Europa: dichiara pubblicamente la morte della pronuncia greca che le nostre scuole non hanno avuto finora il coraggio di abolire per sempre!
Guido Ceronetti