Laura Zangarini, Corriere della Sera 20/07/2012, 20 luglio 2012
«UN BATTICUORE COLOR TURCHESE» - A 67
anni Catherine Spaak è ancora la donna affascinante e bellissima che negli Anni 60 incrociò la commedia all’italiana e i suoi registi, da Mario Monicelli («L’Armata Brancaleone») a Pasquale Festa Campanile («Adulterio all’italiana», «La matriarca») a Marcello Fondato («Certo, certissimo… anzi probabile»). Fino a dieci anni fa era anche una presenza fissa in tv: seduta su un divano damascato, in uno studio scenografato come un «Harem» orientale, affrontava con tre ospiti femminili temi intimi o di attualità. Oggi le parti sono invertite, e tocca a lei raccontare di sé.
«Il mio primo amore? Fu per un bambino che aveva più o meno la mia stessa età, 5 anni. Ma più che a lui collego il ricordo della prima sensazione di grande attrazione verso un altro essere umano alla sua camicetta turchese. Un colore pieno di promesse, sogni, colori».
Catherine conosce questo ragazzino mentre è in vacanza con i genitori e la sorella nel Nord della Francia, a Deauville, in Bassa Normandia. Raffinato e mondano, il piccolo comune francese ospita, tra il Gran Casinò e il più lussuoso albergo del posto, l’Hotel Normandie, il nuovo negozio di Coco Chanel. Ma è sulla spiaggia di Deauville che Catherine e i suoi piccoli amici si ritrovano per andare sulle giostre, o per ballare. E proprio ballando con il bambino dalla camicia turchese Catherine ricorda «la semplice e schietta felicità di essere stretti l’una nelle braccia dell’altro».
A quell’estate piena del profumo del mare è legato un altro ricordo della Spaak, una «lezione» che la futura attrice terrà poi a mente per tutta la vita. «Tra le giostre su quella spiaggia ce n’era una in particolare con la forma di un piatto, si chiamava "il piatto del burro". Il divertimento consisteva nel rimanere attaccati mentre questa ruotava su se stessa, ma soprattutto nel lasciarsi scivolare nella sabbia quando non si riusciva più a mantenere la presa. Io ricordo invece di aver lottato a lungo, e disperatamente, per rimanere aggrappata e non cadere. Quando alla fine dovetti cedere capii che l’atterraggio sulla rena era la conclusione naturale del gioco e che sapersi lasciar andare è fondamentale». Sorride. «Alle volte mi chiedo che fine abbia fatto quella camicetta». Condivise mai quella sua felicità con qualcuno, sua sorella o un’amica magari? «No non ne parlai mai con nessuno, sono sempre stata una solitaria, non sentivo il bisogno di lasciarmi andare a confidenze. Ero una bambina molto timida, cui piaceva stare per conto suo. Coltivavo i miei interessi, mi piaceva la musica classica, ballare…». L’attrazione che provava per quel ragazzino le rivelò qualcosa di sé? «Fu il disvelarsi di un bisogno di bellezza che mi ha poi sempre accompagnata nella vita. Non ho mai amato i ragazzi dai comportamenti poco eleganti, o poco curati, grossolani…». A chi riservò invece il primo bacio? Sospira divertita. «Successe una sera durante una festa in spiaggia. Studiavo danza classica e il ballo era davvero per me il massimo della felicità. Twist, hully gully o i lenti erano i momenti in cui si aspettava che qualche ragazzo si facesse avanti. Atmosfere magiche che per me durarono poco, la mia adolescenza è stata brevissima (Spaak si è sposata tre volte, la prima a 17 anni). Lui lo avevo conosciuto andando a cavallo in Camargue. Ricordo che ci ero andata con mia madre, e che a portarmi a cavalcare era un bellissimo ragazzo di Parigi, alto e sportivo, un cavallerizzo provetto, un po’ cowboy. Io avevo 15 anni, lui qualcuno in più. Ci baciammo tra i fuochi accesi sulla spiaggia e le musiche degli zingari giunti in paese con i carri di legno dipinti a mano per la festa di santa Chiara. Tutto era come avrebbe dovuto essere, proprio come in una favola». Niente di più lontano dal bacio che invece non avrebbe mai voluto dare («Tutti quelli scambiati per esigenze di copione, anche perché sul set ho spesso avuto partner che giocavano a fare i seduttori, e poi quando venivano respinti reagivano pure con arroganza...»). E poi l’amore è anche un simbolo, una «forma» che evoca qualcosa e non si dimentica più. «Per me è la piccola piuma bianca che mi accompagna dappertutto. L’ho trovata per la prima volta accanto a me quando accudivo mia madre negli ultimi giorni di malattia in un ospedale parigino. Per via di una paralisi non poteva più parlare, quindi scriveva parole e pensieri su un piccolo quaderno. Quando lei è mancata, ho cercato in questo suo diario un messaggio per me. Non l’ho trovato, ma dalle pagine è spuntata una piccola piuma bianca. Da allora ovunque io vada ne trovo sempre una accanto a me».
Laura Zangarini