Nick Hopkins, il Fatto Quotidiano 18/7/2012, 18 luglio 2012
LA DONNA CHE SALVÒ KIRKUK
Kirkuk
Aprima vista Emma Sky non sembrava la candidata ideale da inviare in Iraq all’indomani della guerra. Non era mai stata in quel Paese e si era opposta con fermezza alla guerra contro Saddam Hussein. Inglese, era stata negli Stati Uniti una sola volta e nutriva un istintivo atteggiamento di sospetto nei confronti dei militari, in particolare di quelli americani. Non di meno il 20 giugno 2003, a due mesi dall’inizio delle ostilità, Emma Sky salì a bordo di un aereo, unica donna in compagnia di 200 soldati, diretta a Bassora dove sembrava che la guerra fosse già finita, ma dove regnava il caos più completo.
Due settimane prima lavorava ancora come consulente per i progetti internazionali del British Council di Manchester. Studiosa di lingua e cultura araba, Emma Sky aveva lavorato per dieci anni a Gaza e in Cisgiordania prima di tornare in Gran Bretagna con il British Council dove si era occupata di tematiche legate ai diritti umani e alla governance in Africa, Asia e Sudamerica. Quando il ministero degli Esteri si mise alla ricerca di volontari per le attività di ricostruzione in Iraq, Emma, su consiglio di un amico, fece domanda.
“ERO CONTRO la guerra e in realtà desideravo andare in Iraq per chiedere scusa agli iracheni per tutto quello che avevano subito a causa dell’invasione. Ero disposta a fare qualunque cosa per aiutarli a rimettersi in piedi”. Dopo pochi giorni ricevette una telefonata. Le dissero di presentarsi in una base aerea nell’Oxfordshire. Prima di partire non ebbe alcun incontro né colloqui con i funzionari del ministero degli Esteri e non le furono fornite istruzioni dettagliate su cosa avrebbe dovuto fare al suo arrivo. “Dal ministero ricevetti solo una breve telefonata . Mi dissero che essendo stata a lungo in Medio Oriente ero la persona adatta per quell’incarico. Aggiunsero che all’aeroporto avrei trovato qualcuno ad attendermi. In realtà quando arrivai a Bassora non c’era nessuno”. Dopo una notte insonne distesa per terra nell’aeroporto di Bassora, Emma riuscì a raggiungere Baghdad e si presentò a sir John Sawers, inviato speciale della Gran Bretagna in Iraq (e oggi capo del Mi6). La vita all’interno del palazzo che era stato di Saddam, giustiziato il 30 dicembre 2006, era strana. “Le stanze del governo erano diventate dormitori che ricordavano gli ospedali da campo. A volte facevamo la doccia con l’acqua minerale e talvolta persino il pavimento veniva lavato con l’acqua minerale”.
Qualche giorno dopo il suo arrivo decise di fare un giretto nel centro di Baghdad, cosa questa assolutamente vietata. Camminando per la città si mise a parlare con un uomo che vendeva sigarette. “Aveva una cinquantina d’anni. Mi disse che era un mondo hobbesiano. Mi chiesi come faceva a sapere chi era Hobbes. Con quella definizione intendeva fare riferimento ai saccheggi con i quali gli iracheni si vendicavano di uno Stato che aveva sempre controllato la loro vita”.
Fin dall’inizio le fu chiaro che non poteva fidarsi delle apparenze. Sotto la guida dell’americano Paul Bremer, la Cpa (Coalition provisional authority) aveva il compito di riformare e ricostruire il Paese, ma nella maggior parte dell’Iraq infuriavano ancora i combattimenti. A Emma Sky fu ordinato di recarsi a nord. Raggiunse Kirkuk dove “erano a corto di personale”. E così questa trentacinquenne laureata a Oxford divenne la coordinatrice della zona alle dirette dipendenze dell’ambasciatore Bremer. Emma Sky fu condotta in una moderna villa nel centro di Kirkuk, una villa che divideva con alcuni ingegneri e contractor americani. Nel giro di pochi giorni l’ipotesi che un nuovo Iraq sarebbe riemerso facilmente dalle ceneri le apparve scioccamente ottimistica.
“I SERVIZI segreti ci dissero che la nostra residenza poteva essere bersaglio di un attentato”, ricorda Emma. “Di sera dovevamo spegnere le luci e dovevamo dormire vestiti e lontani dalle finestre. La quinta notte la casa fu bersagliata dai colpi di mortaio. Il rumore era assordante. Corsi giù per le scale e mi rifugiai assieme agli altri nel posto più sicuro. Per ore rimanemmo seduti al buio”.
Il giorno seguente la maggior parte delle persone abbandonarono la villa, ma Emma decise di restare. Due notti dopo un gruppo di uomini armati assalì la villa. “Mi svegliai per il crepitio delle armi automatiche seguito da alcune esplosioni. Mi tappai le orecchie con le mani per non sentire il rumore. Ero paralizzata dalla paura. L’attacco durò circa mezz’ora e solo allora mi accorsi che una granata era scoppiata a un paio di metri dal mio letto”. Emma accettò di trasferirsi in un tendone nella base aerea americana dove dormiva in compagnia di sette uomini. Nella prima settimana di permanenza in Iraq aveva rischiato più volte di morire e non aveva ancora capito cosa dovesse fare. Le cose si chiarirono qualche giorno dopo quando Sawers passò da Kirkuk nel suo viaggio di addio al Paese. Emma ascoltò i suoi consigli: “Mi disse di stringere rapporti amichevoli con tutti e di guadagnarmi la fiducia di tutti. E queste furono le sole istruzioni che ebbi durante i primi mesi di lavoro a Kirkuk”.
Con pochi aiutanti, senza ordini da Baghdad e dovendo dipendere dalla protezione degli americani, Emma giunse alla conclusione che c’era una sola cosa da fare: lavorare con i 3.500 soldati della 173esima Brigata aviotrasportata di stanza alla periferia della città.
Emma Sky non aveva mai lavorato con i militari e alcuni di quelli che conobbe all’inizio della sua avventura fecero di tutto per confermare i suoi timori. Un ufficiale americano le disse che lavorare in Iraq “era come trovarsi sul Pianeta delle Scimmie”. Alcuni soldati chiamavano gli iracheni con l’appellativo di “haji”, segno di deferenza in arabo, ma usato dai soldati in maniera sfottente e offensiva. “Erano entrati a contatto con una antica civiltà, con gente che aveva millenni di storia ed era sopravvissuta a feroci dittature. Semplicemente non capivano gli iracheni”.
Emma Sky si mise a studiare la storia di Kirkuk e a girare per la città, per parlare con la gente dei problemi di tutti i giorni. I militari, dal canto loro, sembravano sinceramente incapaci di capire le ragioni dell’ostilità degli iracheni. “Si consideravano i liberatori ed erano arrabbiati perché non percepivano la gratitudine dei locali. Spesso mi chiedevano: ‘Cosa dobbiamo fare per essere amati?’. Cercai di spiegare che chi invade un altro Paese, chi uccide donne e bambini non può mai essere amato”.
Emma Sky trovò un alleato nel colonnello William Mayville, comandante della Brigata. Avevano il medesimo obiettivo: aiutare Kirkuk a rimettersi in sesto per consentire ai militari di tornarsene a casa. Emma Sky partecipava a tutte le “riunioni top secret” riguardanti le operazioni in materia di sicurezza e il suo parere veniva ascoltato e tenuto nella giusta considerazione. Quando arrivò a Kirkuk tutto era gestito dai militari. Ma questo era un aspetto del problema. Sky fece capire ai comandi militari che bisognava puntare a trasferire gradualmente il potere ai locali.
Emma e Mayville dettero vita a una sorta di “squadra di governo”, una alleanza tra una civile e un militare che servì poi da modello per la nuova strategia americana contro l’insurrezione. Crearono la Commissione per lo sviluppo di Kirkuk per rilanciare l’economia locale. E incoraggiarono gli iracheni a protestare contro le prepotenze o i danni materiali subiti dai militari durante le operazioni di rastrellamento.
TRA I TANTI problemi due strettamente intrecciati: quello dei 250.000 curdi che reclamavano le loro case fatte requisire da Saddam negli anni 70, quando il dittatore aveva deciso di “arabizzare” Kirkuk facendo arrivare in città centinaia di famiglie provenienti dal sud del Paese e quello di una eventuale secessione di Kirkuk e di tutto il nord curdo dell’Iraq. Emma Sky insistette affinché il Cpa concedesse una vasta autonomia a Kirkuk. Incontrò i vertici degli Stati Uniti, il segretario di Stato Colin Powell e il viceministro della Difesa, Paul Wolfowitz, quando fecero una breve visita in città.
Il 19 settembre 2003 Emma Sky fu invitata a partecipare ad una riunione a Baghdad con Bremer e il suo vice, il diplomatico britannico sir Jeremy Greenstock. “La mia idea di autonomia fu bocciata perché non si voleva creare un precedente”. Tuttavia Bremer promise a Emma Sky che il problema di Kirkuk sarebbe stato considerato prioritario.
Emma ricorda che gli iracheni non rimpiangevano Saddam. “Ero arrivata per chiedere scusa agli iracheni e invece fui investita da una litania di racconti sulle sofferenze patite sotto Saddam. La cosa mi trovò in qualche modo impreparata. Le fosse comuni, la tortura, la burocratizzazione dei maltrattamenti, l’assoluta banalità del male. Ma gli iracheni si aspettavano anche molto dagli Stati Uniti. Dopo ogni guerra Saddam aveva ricostruito il Paese in sei mesi e quindi pensavano che in sei mesi gli americani avrebbero fatto miracoli”. Purtroppo, ammette Emma, il Cpa, malgrado gli sforzi e la buona volontà, non era in grado di soddisfare le aspettative, anche perché pagava l’inesistente pianificazione e l’approssimazione con cui americani e inglesi avevano deciso di invadere l’Iraq.
Una delle decisioni fu la cosiddetta “debaathificazione” del Paese che si tradusse nel licenziamento di migliaia di professionisti, medici e insegnanti. “La demonizzazione del partito Baath, il partito di Saddam, si rivelò una scelta pericolosa”, commenta Emma. “Le varie comunità ne furono colpite in maniera difforme. In alcune zone a maggioranza sunnita la gente rimase senza scuole e senza assistenza medica. La coalizione che ne sapeva dell’Iraq? Nulla. Si erano semplicemente ispirati alla denazificazione. Le conseguenze furono terribili e portarono a una guerra di tutti contro tutti e fecero esplodere la rabbia”.
Molti arabi sunniti finirono per ingrossare le fila degli insorti perché si sentivano esclusi da un Iraq a guida sciita. Il comandante in capo della regione di Kirkuk, il generale Ray Odierno, nel tentativo di risolvere il problema firmò un provvedimento di amnistia per gli insegnanti e i medici. Seguirono mesi di inaudita violenza. Nel febbraio 2004, Emma Sky era tornata a Baghdad, al quartiere generale del Cpa.
Gli attentati erano continui. Il generale Odierno, pur considerato un militare “della vecchia scuola”, apprezzò le doti di Emma e la sua visione dei problemi. “Odierno non fece mai commenti sul fatto che una civile e per di più inglese faceva parte di una divisione americana”. Comunque alla fine del 2004 Emma fece ritorno in patria. Ma nel settembre 2006 ricevette una mail da un amico che altri non era se non Odierno: il generale si apprestava a tornare in Iraq e la voleva al suo fianco come consigliere politico. Emma accettò.
NEL 2006 la situazione in Iraq sembrava disperata. Solo in quell’anno morirono 16.564 iracheni e quasi mille soldati. “In uno dei primi incontro gli dissi che la situazione era disastrosa e che si trattava probabilmente di uno dei più grandi fallimenti strategici della storia degli Stati Uniti”. Seguirono due anni di duro lavoro. Si trattò di cambiare completamente strategia sotto la guida del generale David Petraeus. E Emma Sky svolse un importante ruolo diplomatico e di mediazione con il premier Nouri al Maliki.
Nel dicembre 2007 ci fu una riunione alla presenza del generale Odierno e di al Maliki. Il generale spiegò che era necessario integrare tutte le forze di sicurezza, aprendole agli iracheni. Al Maliki restò un attimo in silenzio poi disse: “Sono d’accordo con il generale al 100%”. “Fu un momento storico”, ricorda Emma Sky. Fu il momento decisivo. Da lì partì veramente la ricostruzione dell’Iraq. Alla fine del 2007 Emma Sky tornò in Inghilterra. Era convinta che la sua missione in Iraq fosse terminata. Ma si sbagliava.
Tre mesi dopo fu richiamata in Iraq sempre dal generale Odierno e ci rimase fino al settembre 2010. In quegli anni diede un contributo decisivo alla pacificazione del Paese e nel favorire nel 2009 l’incontro tra Maliki e il presidente Obama in visita in Iraq per la prima volta. Emma Sky è rimasta in Iraq per un totale di cinquanta mesi e, almeno per ora, dopo questa straordinaria esperienza, è ritornata a insegnare a Oxford.
© The Guardian
Traduzione
di Carlo Antonio Biscotto