Eduardo Di Blasi e Nello Trocchia, il Fatto Quotidiano 18/7/2012, 18 luglio 2012
LA MOZZARELLA CHE SA DI CAMORRA
Quando sedeva a tavola con i boss del clan mondragonese dei La Torre, cui era legato da antica amicizia, era di buon appetito, Giuseppe Mandara. Lo chiamavano “bocca sfondata”, nomignolo che poi era traslato in “bocca”, “Giorgio Bocca” e infine “Giorgetto”. Per la camorra dei La Torre, il “re della mozzarella”, titolare di un marchio “dop” noto anche oltre i confini italiani, era un socio fedele. L’inchiesta dei pm della Direzione distrettuale antimafia, culminata ieri con il suo arresto e il sequestro di beni per un valore stimato di cento milioni di euro, ritiene che la “Mandara” sia “una società di fatto a prevalente partecipazione mafiosa, con capitale originario interamente mafioso”.
LA STORIA che narrano le quasi cinquecento pagine dell’ordinanza firmata dal gip di Napoli Alberto Capuano, parte dal 1983, quando Giuseppe aveva 37 anni e il caseificio sulla Domitiana era gestito dallo zio, un piccolo imprenditore che con i La Torre aveva solo il consueto rapporto di pagargli il pizzo. Tra l’80 e l’82 Giuseppe era vissuto a Napoli. Condivideva l’appartamento con un giovane iscritto all’Isef : Augusto La Torre, figlio del boss Tiberio Francesco, reggente del clan di Mondragone, che di lì a poco ne avrebbe preso il posto, diventando infine collaboratore di giustizia.
Augusto e Giuseppe all’epoca erano “due fratelli”, così quando quest’ultimo era andato a chiedere aiuto al clan (aveva debiti di gioco e il caseificio dello zio non versava in buone acque), i La Torre avevano sborsato 700 milioni di vecchie lire ed erano diventati “soci”.
Dalla Mandara, scrivono i giudici, il clan La Torre incamera dai 150 ai 200 milioni di lire l’anno, in vent’anni fanno 4 miliardi. Essere in affari con la camorra ha del resto i suoi benefici. Mandara diventa monopolista del burro nell’intero territorio di Mondragone (prima il business era tenuto dai casalesi), acquista un pezzo di terreno di fianco all’impresa dopo che i La Torre hanno sparato al proprietario, fa trasportare la propria mozzarella alla ditta che fa capo a Vincenzo Musella “il comandante”, già killer del clan Licciardi di Secondigliano. E ovviamente tiene sotto controllo qualsiasi possibile rivendicazione sindacale.
Quando a metà degli anni ‘90 i casalesi di Sandokan Schiavone si scontrano con i La Torre, sanno dove andare a colpire: una bomba e dei colpi di arma da fuoco contro il caseificio sono il segno della battaglia. E i La Torre rispondono: assieme agli uomini di Bidognetti (il casalese in rotta con Sandokan), ai Belforte di Marcianise e ai Ranucci di Sant’Antimo, occupano i cantieri della Tav di Napoli. Lo slogan non è proprio “no tav”. Urlano: “I casalesi non comandano”.
Nel 2008, ancora, Giuseppe Mandara viene condannato per falsa testimonianza: ha dato un finto alibi ad Augusto, accusato in concorso per l’omicidio volontario di Luciano Roselli e Salvatore Riccardi. Sarà proprio il pentimento di Augusto a far saltare tutto.
E LA MOZZARELLA? Neanche su quella si va tanto per il sottile. Quando si rompe la macchina che fa i bocconcini più piccoli (le ciliegine), Mandara è preoccupato: “Prende qualche bambino là, è una tragedia”, dice al telefono. Ma poi non ritira il prodotto dal commercio. I soldi prima di tutto.
Già, perchè nell’inchiesta della Procura di Napoli, coordinata dall’aggiunto Federico Cafiero De Raho, pm Alessandro Milita, eseguita dalla Dia, guidata dal capocentro Maurizio Vallone e dal Noe di Napoli, agli ordini dal maggiore Giovanni Caturano, già comandante del gruppo, c’è anche la truffa alimentare. L’oro bianco dell’imprenditore del clan era una garanzia, le mozzarelle a marchio Conad e Coop provenivano dallo stabilimento di Mondragone di Mandara. La Coop fa sapere che ha sospeso le forniture e la Conad ha mandato una lettera precauzionale e non esclude analogo provvedimento. L’oro bianco di Mandara, del resto, arrivava in tutto il mondo dalla Russia al Giappone, 78 mila pezzi di mozzarella di bufala prodotti al giorno.
A Giuseppe Mandara è contestato anche il commercio di sostanze alimentari nocive. Oltre alla ciliegina alla ceramica (la vicenda risale al 2008, e l’unica preoccupazione dell’imprenditore che emerge dalle intercettazioni, è di accertarsi con l’avvocato di eventuali conseguenze pena-li) c’è il provolone contraffatto. Una partita di 59 provoloni messa in commercio con un falso marchio dop, denominati “del Monaco”. Mandara non riesce a far fronte alla richiesta dei vari clienti, il più importante la Unicoop di Scandicci, così escogita l’alternativa: “Eh... vabbe’ eh preparateli eh mo proviamo a mollargli quelli là...questi qua senza marchio e vediamo che succede” spiega al telefono ad un suo collaboratore. Con il benestare di Luca Cantini e Antonio Severini, titolari dell’Alival importante gruppo alimentare con sede a Pistoia, che detiene il 49% del gruppo Mandara.
Quando il corpo forestale sequestra una parte della partita di provoloni a Nola, in provincia di Napoli , Mandara si infuria e chiede all’avvocato di contattare il suo conterraneo, il deputato Antonio Milo, Mpa, estraneo all’indagine. Il Gip scrive: “Tutto ciò ha permesso all’azienda di lucrare sul mercato proponendo una partita di prodotti falsi sui quali il margine di guadagno è consistente, data la differenza dei costi e dei tempi di produzione degli alimenti”. Le strategie dell’imprenditore Mandara, l’Armani della mozzarella come ama definirsi, non sono finite.
Ci sarebbe anche, a dispetto del disciplinare, l’uso di latte vaccino nelle mozzarelle di bufala e, soprattutto, l’uso di acqua ossigenata, vietato dalla legge, per correggere esiti analitici sfavorevoli. L’additivo sarebbe stata usato per una partita di mozzarelle da spedire negli Stati Uniti per migliorarne la conservazione. Il Consorzio di tutela della mozzarella di bufala campana Dop ha espulso Mandara. Con una ventina d’anni di ritardo, si direbbe.