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 2012  luglio 19 Giovedì calendario

LA MANO TREMANTE CON CUI ALI VINSE L’ORO DEL DOLORE


Ali apparve all’improvviso nella notte, gigantesca visione bianca. Indossava una tuta che sembrava un pigiama d’ospedale e cominciò a muovere gli occhi smarrito, come per chiedere aiuto. Il più grande pugile di tutti i tempi e, insieme, l’uomo più fragile al mondo. Stringeva la torcia nella mano destra, mentre la sinistra ballava all’impazzata, senza controllo. Il singulto del Parkinson faceva danzare anche il fuoco di Olimpia. Muhammad Alì e la sua ombra sotto il tripode: una coreografia drammatica e splendida, quello che più resta nella memoria di Atlanta ’96. Fu dolore esibito, spettacolarizzato? Fu sfruttamento del campione che più di ogni altro aveva saputo mantenersi libero, fino a quel momento almeno? Fu puro coraggio? Si discusse molto, in quei giorni, dopo l’impatto emotivo che aveva travolto anche i critici più severi. «Ora starei meglio, se non l’avessi visto», disse Nino Benvenuti ed erano parole piene di pietà. «Un’insolenza, lui non rappresenta l’America», commentò invece Joe Frazier, antico nemico sul ring, con disprezzo.
Rivista oggi, quella fotografia ricorda semmai le ultime immagini di Giovanni Paolo II, racconta la scelta di non nascondere il male, di non nascondersi a lui. Ma la sera del 19 luglio 1996, miliardi di persone dovettero decidere in un istante come collocarsi di fronte all’atleta ferito e dolente, eppure ritto di fronte a una specie di destino. La nuotatrice Janet Evans, penultima tedofora nello stadio americano, tremava quasi più di Alì quando gli passò il fuoco. E lui rimase lì, al centro del ring, con le pupille che ruotavano e le braccia da governare in qualche modo, dentro una specie di colossale silenzio.
The greatest
aveva solo 54 anni, era già molto appesantito e l’oltraggio della malattia non si poteva nascondere, non più. Per questo, la valenza simbolica della scena andò oltre il coraggio di non fuggire, per smascherare semmai un’idea idolatra e insensata: che cioè il corpo degli atleti sia un luogo intangibile, una specie di paradiso che il tempo e il male non possono corrompere. E che non possa esistere altra vita al di fuori dello splendore fisico, del perfetto e luminoso controllo di ogni muscolo, di ogni nervo. Stringendo in quel modo goffo e tenerissimo la sua torcia, Alì spiegò al mondo che non esistono vite “indegne”, e che la scorza di un uomo può ammalarsi senza che si corrompa per questo l’anima.
Perché Muhammad Alì potesse diventare l’ultimo tedoforo, venne cambiata la parte finale della cerimonia: era impensabile che lui salisse la scalinata verso il braciere. Nonostante le difficoltà pratiche, il presidente del comitato organizzatore Bill Payne non volle rinunciare al colpo a sensazione. Così fu deciso che Alì avrebbe acceso con la sua torcia una specie di matassa imbevuta di benzina, trascinata da un cavo sulla sommità del tripode. Operazione non semplicissima: Alì, scosso dai tremiti, faticò a passare la fiamma, e la matassa una volta accesa rallentò la sua salita fino quasi a bloccarsi, per poi riprendere la corsa. Il pubblico gridava, Alì sempre
immobile. E il braciere esplose di luce.
Non fu un’edizione memorabile, quella dei Giochi che la Coca Cola (di Atlanta) strappò ad Atene nonostante il centenario da celebrare in ben altro modo (1896/1996). Molto, nella macchina organizzativa, non funzionò. Pochi lo ricordano, ma ci fu anche un attentato: il 22 giugno, Eric Robert Rudolph mise una bom-
ba al Centennial Olympic Park, l’ordigno fu scoperto da un guardiano, si tentò di far evacuare il parco ma l’esplosione avvenne ugualmente e uccise una donna, Alice Hawthorne, ferendo 111 persone. Dal punto di vista sportivo, Atlanta ’96 resta l’Olimpiade di Michael Johnson e delle sue scarpette d’oro, proprio come le medaglie sui 200 e 400 metri. Per gli azzurri, il
momento più intenso rimane l’esercizio di Jury Chechi agli anelli.
Ma nulla può competere, nel ricordo, con la mano tremante di Muhammad Alì, quel pugno che aveva abbattuto montagne e che non riusciva neppure più a governare il balletto di una fiamma. Forse lo avevano messo lì per “bucare” i televisori di tutto il pianeta, forse fu soprattutto il tripudio degli sponsor e dei potenti dello sport: si erano illusi di avere finalmente domato il loro più fiero avversario, invece gli avevano solo consegnato un altro pezzo di immortalità. Quella più pura, che si consuma affrontando il dolore.