Vittorio Zucconi, la Repubblica 19/7/2012, 19 luglio 2012
HILLARY
Qual buon vento ti spinge, Hillary? Quali correnti d’alta quota stai navigando, signora con le ali che hai volato più di ogni altro segretario di Stato americano, che già hai fatto trentaquattro volte il giro della Terra e ancora non ti vuoi fermare?
La diplomazia, certamente. Il dovere. Il “job”, il lavoro. L’ansia di chi sente di rappresentare — lo disse — «non la nazione che può risolvere tutti i problemi del mondo, ma quella senza la quale nessun problema si risolve». E quando si tratta di Hillary Rodham in Clinton si deve sempre aggiungere la spasmodica diligenza della ragazza che all’Università di Yale costringeva il corteggiatore famelico, tale William J. Clinton detto “Bubba”, a trascorrere con lei giornate in biblioteca, se voleva poi rimediare qualche cosa più tardi. Hillary, disse uno dei suoi professori, era il genere di studentessa che, se deve imparare a memoria un articolo di legge, «impara a memoria tutto il codice».
Ma nella furia leggermente nevrotica con la quale la signora con le ali ha affrontato il compito di segretario di Stato, il premio di consolazione dopo la sconfitta contro Barack Obama alle primarie che la fece piangere in pubblico, c’è un sospetto che va oltre l’imperativo della “jet diplomacy”, della diplomazia moderna. Svolazzare fra capitali, cancellerie, tragici banchetti ufficiali del “pollo di cartone” è parte della “job description”,
dei compiti previsti. Già un suo illustre predecessore, Henry Kissinger, aveva scoperto, nelle sue frenetiche navette fra nazioni arabe e Israele negli Anni ’70, che non ci sono surrogati alla presenza fisica sul posto.
Eppure, conoscendo la signora, sapendo quale insanabile ustione nell’anima le provocò la sconfitta contro Obama, c’è il sospetto malizioso che lei voglia superare almeno in cielo quell’uomo che non riuscì a superare sulla terra. Con le sue 880mila e 780 miglia percorse a bordo dell’Air Force One, un milione e 400 mila chilometri, il Presidente è ancora avanti, ma per poco. Hillary lo tallona con un milione e 350mila chilometri. Una distanza che lei sicuramente potrebbe colmare con un prossimo tour attorno al
mondo.
Che cosa abbiano fruttato agli Stati Uniti queste mille volte mille miglia che il Boeing 757, molto più piccolo di quel “Taj Mahal” volante, il 747 che trasporta il capo, ha coperto nei 42 mesi del suo servizio dal febbraio del 2009, non è ancora del tutto visibile. Anche se i successi della diplomazia si misurano più spesso da quello che non si vede, che da cioè che si vede, il dividendo della immensa fatica di Hillary sembra essere stato finora soprattutto quello di avere tenuto a freno gli israeliani frementi per il programma nucleare dell’Iran, di avere messo una pezza a colore sul pasticcio afgano, di avere posizionato gli Stati Uniti dalla parte giusta nell’anno virulento delle “primavere
arabe”.
Ma è la corsa a essere più presidente del presidente per qualche ora, di essere per molte della 102 nazioni che ha visitato la “faccia” degli Stati Uniti, il carburante che aziona i due motori (l’Air Force One ne ha quattro) del suo Boeing di servizio. Il sito ufficiale
del dipartimento di Stato mantiene, dietro sua richiesta, una pagina Internet quotidianamente aggiornata, nella quale è visibile il cruscotto dei suoi spostamenti, le nazioni visitate, il chilometraggio, le ore consumate negli affari di Stato. 1.830 ore. Settanta giorni. E 16 minuti, perché non sarebbe Hillary, se non tenesse conto
anche del minutaggio.
Quello che il cruscotto della signora alata non dice, sono la fatica devastante dello staff che deve starle dietro, l’incubo della ambasciate che se la vedono piombare dal cielo. «Non potrei giurarlo — ha detto il ministro di una ambasciata americana in Asia sotto il più stretto anonimato — ma credo di averla vista passare il dito sulla mensola sopra la spalliera delle poltrone per vedere se ci fosse polvere». I suoi collaboratori, che viaggiano sulle normali poltroncine del “757”, un aereo notoriamente scomodissimo e non hanno una mini suite privata con letto e doccia come lei, sbarcano magari dopo tredici decolli e atterraggi come l’ultima missione fra Asia e Medio Oriente, frastornati ed esausti. In una tappa egiziana, molti si erano dimenticati che dalla rivoluzione del 2011 l’Egitto avevano abbandonato l’ora legale e i loro cellulari e blackberry non si erano autoregolati. Un disguido che ha prodotto caos, appuntamenti mancati e, nel viaggio di ritorno, quello che diplomaticamente si potrebbe tradurre in italiano come “un cazziatone” a 11mila metri di quota.
Hillary, in questa sua corsa contro i pochi mesi che rimangono, fino e non oltre il 21 gennaio del 2013 quando lascerà comunque l’incarico, ha l’aria di divertir-
si molto. Sorride felice quando, sbarcando, il vento le scompiglia i lunghi capelli tinti di biondo e sciolti. Ha abbandonato in pubblico gli occhiali da secchiona, per le lenti a contatto che esaltano i suoi occhi azzurri. Civetta, nei suoi fiorenti quasi 65 anni, con i suoi ospiti, tra diplomazia e calore personale, lei che si era fatta la fama della donna freezer, come in Israele, quando ha sospirato forte
perché tutti la sentissero, poggiando la mano sul braccio di Ben Netanyahu: «Quanto mi dispiace doverti lasciare, Ben, e tornare a Washington, qui con te stavo benissimo
».
Tra poche settimane, quando la campagna elettorale e la sfida mortale fra Obama e Romney esploderanno, i suoi viaggi da
globe trotter
verranno relegati fra le varie ed eventuali. E lo svolazzare del Presidente da un comizio all’altro in terra americana renderanno forse irraggiungibile il suo chilometraggio. Ma Hillary non si fermerà, perché in lei vivono i versi del grande Robert Frost: «Ma io ho promesse da non tradire/ E miglia da percorrere prima di dormire ». La promessa che lei deve mantenere con se stessa e con la propria ambizione.