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 2012  luglio 19 Giovedì calendario

AVAMPOSTO DEL LAVORO AL SUD

Per più di ottant’anni non c’è stata in Italia una vicenda industriale più tormentata di quella dell’Ilva, l’acciaieria sorta nel 1911. Ma, dopo il passaggio nel 1995 di quanto le era rimasto in dote al Gruppo Riva, si riteneva che le sue peripezie fossero finite. Sembra invece, dato il rischio di una chiusura per incompatibilità ambientale dell’acciaieria di Taranto (la più grande d’Europa), che la sua sorte sia nuovamente in bilico. E giunga così all’epilogo anche la prospettiva, coltivata dai governi susseguitisi dall’età liberale al fascismo, alla prima Repubblica, di fare dell’Ilva uno degli avamposti per lo sviluppo industriale e dell’occupazione nel Mezzogiorno.
Dopo che Giolitti, su sollecitazione di Nitti, aveva deciso nel 1904 di dar corso al primo intervento straordinario dello Stato per il Sud, con la creazione di un polo siderurgico e cantieristico nel distretto napoletano, venne infatti costituita a tal fine l’Ilva (col patrocinio della Banca d’Italia) quale consorzio affittuario per 12 anni degli impianti di imprese liguri e toscane che utilizzavano il minerale ferroso dell’Elba. Mettendo termine alle loro lotte di quartiere si pensava di ridurre anche le crescenti passività di un’industria siderurgica che, seppur protetta da alti dazi, produceva troppo poco e a costi elevati a causa della sua frammentazione e di uno scarso livello tecnologico.
Senonché, una volta esauritesi le commesse lautamente pagate dallo Stato durante la Grande Guerra, l’Ilva subì un collasso e dell’"impero" che frattanto aveva costituito (con forti partecipazioni in imprese minerarie, meccaniche, elettriche, navali e persino editoriali) non rimasero che le briciole. Perciò la Comit e il Credito Italiano, che le avevano concesso larghi prestiti, ne rimpiazzarono nel 1921 il gruppo di comando (pilotato da un "capitano di ventura" come Max Bondi) con esponenti di loro fiducia del Gruppo Odero-Orlando, e ne ricostituirono l’anno dopo le fondamenta cedendo tuttavia l’impianto di Bagnoli.
Ma l’ex colosso siderurgico si trovò nuovamente a malpartito dopo la crisi del 1929. Finita nel 1934, insieme alle Banche che la controllavano, nel convalescenziario dell’Iri, e passata poi sotto la regia di Agostino Rocca e Oscar Sinigaglia (fautori della siderurgia a ciclo integrale), l’Ilva affrontò dal 1938 un’aspra contesa (faticosamente mediata, in ultimo, da Mussolini) con i complessi elettrosiderurgici di Falck e Fiat.
In seguito alla ristrutturazione che, dagli anni Cinquanta, rese la siderurgia pubblica una delle leve del "miracolo economico", nel 1961 l’Ilva venne fusa con Cornigliano nell’Italsider per la produzione dal minerale ai laminati, in base a un modello organizzativo divisionale all’americana. E dal 1963 l’Iri utilizzò gran parte degli indennizzi acquisiti dopo la nazionalizzazione (col centro-sinistra) delle imprese elettriche delle Partecipazioni statali, per la creazione del Quarto centro siderurgico a Taranto. L’obiettivo era di contribuire al crescente fabbisogno dell’industria meccanica e di ridurre il divario fra Nord e Sud.
Ma nel 1980 la capacità produttiva risultò in eccesso e fu indispensabile, anche su mandato della Cee, ridimensionare gli impianti e sfoltire la manodopera: finché nel 1988 venne costituita una "Nuova Ilva", a cui fece seguito un accordo nel 1993 in sede comunitaria, che prevedeva il ripianamento dei debiti aziendali e la totale privatizzazione del settore siderurgico.
Due anni dopo, la cessione del polo siderurgico di Taranto al Gruppo Riva fu una sorta di "quadratura del cerchio": sia perché il Tesoro ne ricavò 1.900 miliardi di lire; sia perché la nuova holding s’impegnò (come poi avvenne) in un vasto piano di investimenti industriali a garanzia anche dell’occupazione e dell’ambiente.
Sarebbe perciò una iattura un eventuale stop all’Ilva: tanto più in una regione come la Puglia dove dal 2007 a oggi si sono persi migliaia di posti di lavoro.