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 2012  luglio 19 Giovedì calendario

SILVIO E MARCELLO SERVI-PADRONI


SILVIO gli fa il baciamani e lo chiama don Dell’Utro, dove la o che arrotonda e deride al tempo stesso enfatizza e onora il carisma del mistero. Insomma lo svuota e lo carica: lo svuota di mafia per caricarlo di mafiosaggine, ammette e allontana: non delinquente ma uomo di rispetto.
Lo stesso uomo — e Berlusconi non capisce — che si rifiuta di andare in tv dai giornalisti compiacenti. «Io — dice — vado da Santoro», ed è vero. Perciò Berlusconi gli bacia la mano, perché non cede alle lusinghe, lo riconosce come duro. Ed è una pantomima che piace ad entrambi, e infatti la raccontano loro stessi. «Ma tu sei solo un tessera P2 — ha pubblicamente detto Dell’Utri a Berlusconi — io invece sono arrivato alla P4». Forse neppure loro sanno chi dei due è il secchio e chi la corda, chi è il doppio e chi è il sosia di chi. Sanno però che l’uno è l’autenticità dell’altro. Nella storia del berlusconismo, inteso come lunghissima amicizia d’affari che poi diventa politica, Berlusconi e Dell’Utri sono anche la finta ingenuità e l’esibita saputaggine, sono il buono e il cattivo (lasciando la parte del brutto a Confalonieri).
Questa ambiguità, che fa di Dell’Utri l’altra faccia di Berlusconi, risale almeno al 1974, alla mitica Immobiliare San Martino, alla Edilnord, alla Fininvest, a Publitalia, a Forza Italia. È una storia che è stata molto raccontata. Ma poco è stato detto su questa ambiguità che è maligna ma sincera. Si sa per esempio che in quel 1974 spuntò per la prima volta il nome di un boss protettore, Stefano Bontade. E forse è una leggenda, come ripete Dell’Utri, ma una cosa è sicura: da quel momento l’ex impiegato di banca palermitano portò in dote a Berlusconi «la Sicilia come metodo» direbbe Sciascia, la sostanza di un antico “saperci fare” per compensare le inadeguatezze del brianzolo, una scienza di vita dunque, un rapporto con uomini che «ad uno come te possono togliere le scarpe ai piedi; e tu cammini scalzo senza accorgertene».
E infatti nelle foto d’epoca Berlusconi
esibiva ancora la pistola sul tavolo per spaventare i sequestratori. Oggi si sa che Dell’Utri gliela sostituì con la protezione di uno stalliere mafioso e maestro che divenne il precettore di Piersilvio. Ebbene, a quello stesso Mangano, con il quale trattava per telefono partite di misteriosi “cavalli”, Dell’Utri disse: «Berlusconi non suda» e voleva dire che non sgancia, non paga sotto minaccia. Eppure con Dell’Utri, Berlusconi si è sempre comportato come un faraone, lo ha mille volte ricoperto d’oro, e ben prima di quei 21 milioni, sui quali ora indaga la Procura di Palermo, con cui gli ha comprato una villa che ne valeva 9. Berlusconi è una cassaforte che ogni tanto, ma sempre inaspettatamente, si apre per lui: donazioni, assegni circolari, titoli. Nel solo 1993 gli “emolumenti” furono di circa ottocento milioni di lire, e poi regali, ora di duecento milioni e ora di settecento milioni, «e le cifre non erano sempre così importanti, qualche volta mi dava quaranta o cinquanta milioni, dipendeva credo dalle sue disponibilità ». E ogni tanto «mi arrivava una busta anonima in ufficio con dentro delle banconote». E la casa? «Un giorno mi disse “vedo che ci stai bene, tienila, è tua”». Berlusconi, come spiegò Dell’Utri al giudice che se ne meravigliava, è fatto così: gli piace pagare, «ma a sorpresa». Ecco perché Dell’Utri può dire che «non suda», ma aggiungere — con lo stesso gergo, quello dei sensali palermitani — che «offre la minna», porge la mammella da latte.
E infatti la loro amicizia è un fiume di danaro che Dell’Utri ricompensa con la saggezza, con la costruzione prima di Publitalia e poi di Forza Italia «su modello maoista in versione palermitana»: Berlusconi come grande timoniere, il partito come marea montante, e la famiglia da Marina a Barbara, come cupola. E «non fedeltà, ma devozione»
predicava Dell’Utri, che è la stessa qualità dello stalliere Mangano, il quale, condannato per mafia e per omicidio, morì in galera per tumore al colon. Dell’Utri è convinto che lo stalliere di Arcore in carcere venne trattato con una severità che rasentava la spietatezza perché lo si voleva convincere ad accusare Berlusconi o lo stesso Dell’Utri. E invece ogni volta che lo interrogavano Mangano ripeteva che Berlusconi era «una persona per bene». Perciò Dell’Utri, come si sa, gli tributò un monumento postumo, un epicedio, definendolo eroe. Per tutti gli altri è il martire dell’omertà, il santo della mafia.
In realtà nel soprannome «stalliere di Arcore » c’è il dio nascosto non solo della vita e della morte di Vittorio Mangano ma anche della vita di Marcello Dell’Utri, è il codice del suo destino, l’idea sulla quale stanno oggi lavorando i giudici di Palermo. Lo stalliere che Dell’Utri portò ad Arcore era già la mafia che si metteva a sua disposizione, perché Dell’utri è «il paesano che ci consegnerà il paese» dicono i pentiti. E la mafia è la stessa che nel 1992 tratterà con lo Stato, l’onorata società che, ucciso Lima, trovò in Dell’Utri il suo gran visir. Vero, falso? Certo è più di un cattivo pensiero e di una malizia. E’ il sospetto di un sodalizio criminale, un’ipotesi di reato che prima o poi arriverà al giudizio. Indizi ce ne sono, sulle prove si vedrà.
E però tutti gli italiani sanno che le vite di Marcello Dell’Utri e di Silvio Berlusconi sono così intrecciate da far pensare appunto alla corda e al secchio, a un unico destino, a un comune pozzo nero. I due hanno percorso insieme le strade tortuose del successo economico, dall’Immobiliare San Martino sino ad oggi, con storie terribili e invenzioni economiche e politiche brillanti e feroci. Insieme hanno fondato Forza Italia, hanno governato e hanno vinto, poi perso le elezioni,
poi vinto, parafrasando Montale «hanno salito un milione di scalini dandosi il braccio». Ed è ancora insieme che si dichiarano bersagli di «un giustizialismo politico barbaro». Con la differenza che Dell’Utri civetta con la propria colpevolezza, da duro appunto: «Persino io guardando me stesso dall’esterno mi riconosco come mafioso… E se i mafiosi non dicono che io e Silvio andavamo per mafiosi cosa devo pensare? Che sono persone serie? «Berlusconi invece fa lo spaventato: «E’ ripartito a Palermo il solito circo giudiziario, fischiano contro di me le pallottole delle Procure di regime».
Dell’Utri e Berlusconi sono il reciproco “energheion” direbbero i greci, la risorsa, il deposito di carburante di cui l’uno nutre l’atro. Il siciliano è lo spavento della realtà e il brianzolo è il sorriso volatile dell’etere. Cesare Garboli sintetizzava così: «Li guardi e non capisci chi dei due è il servo e chi il padrone ». Il vero gemello di Marcello Dell’Utri non è infatti il fratello monozigote Alberto, ma Silvio che solo da lui si fa rimproverare e persino strapazzare. Il siciliano alza al cielo le mani giunte e comincia sempre nello stesso modo: «Silvio, non è così». Di Lavitola per esempio gli scandì in faccia: «È cosa e nenti, è una cosa di niente». E le donne di Arcore «sono solo vastasate» cioè volgarità. E la gente nova, dalla Gelmini alla Santanché, «non è buona manco per la schiuma». Silvio invece gli rinfaccia i soldi sprecati per «quel tuo Rotary di vecchi» che è fatto di bibliofilia, di finti diari di Mussolini, delle pagine mancanti di Pasolini, di circoli del buon governo e persino della “Silvio Berlusconi editore” che permette a Dell’Utri di pubblicare
La Biblioteca dell’Utopia:
Giordano Bruno e Francesco Bacone, Schumpeter, Pico Della Mirandola e, fiore all’occhiello,
Il Manifesto del partito comunistacon
la prefazione che Lucio Colletti
gli scrisse poco prima di morire. «Lei quanto spende annualmente in questo tipo di acquisti?» gli chiese il giudice nell’interrogatorio del 1996: «Siamo sull’ordine di decine di milioni, qualche decina di milioni ». Dell’Utri, che è sempre in bolletta, dice a Berlusconi che lo spreco vero «un peccato mortale» è quella Mondadori che pubblica Alfano, Lupi, Bondi, Sacconi… e, ultimo arrivato, Cicchitto, con tanto di presentazione a Roma di Massimo D’Alema. Per Dell’Utri è «come mettere sottosopra la Gioconda», quasi peggio delle iniziative giudiziarie di Ingroia al quale contrappone quello che chiama «lo stile» dello stalliere di Arcore.
Dice Dell’Utri: «Chiunque capisce che l’accusa contro di me travolgerebbe Berlusconi ». E non è la minaccia di Romolo al fratello Remo ma la constatazione banale che non ce l’ha fatta a mettete in piedi quella società di ottimati, custodita dai suoi Contestabile, Lino Jannuzzi, i famosi professori, Gianni Baget Bozzo, Vittorio Sgarbi, un gruppetto di giornalisti fiduciosi nella rivoluzione liberale, sui quali è meglio stendere un pietoso velo, la covata di Publitalia, Miccichè e Galan, Massimo De Caro, il famigerato direttore della biblioteca dei Girolamini… Avevano il compito di reclutare soldati della cultura e intanto riscrivere la storia, addomesticare la natura dei tribunali, riformare la giustizia e la Costituzione, liberalizzare l’economia, togliere tasse e manette, lacci e laccioli, domare i pubblici ministeri, abolire il 41 bis, restituire l’onore a Mangano… Tra le macerie di questo progetto è rimasto solo il pozzo nero, con una corda e un secchio. Tiri la corda Dell’Utri e sale il secchio Berlusconi, Un secchio, va da sé, pieno di soldi.