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 2012  luglio 19 Giovedì calendario

Imperi travolti dalla crisi Così è finito il mecenatismo all’italiana – C’è una postilla che non manca mai nelle relazioni dei revisori dei conti di Inter e Milan: «Il socio di riferimento ha espresso il consueto impegno a supportare anche per il futuro la società e su tale presupposto è stato redatto il bilancio nella prospettiva della continuità aziendale»

Imperi travolti dalla crisi Così è finito il mecenatismo all’italiana – C’è una postilla che non manca mai nelle relazioni dei revisori dei conti di Inter e Milan: «Il socio di riferimento ha espresso il consueto impegno a supportare anche per il futuro la società e su tale presupposto è stato redatto il bilancio nella prospettiva della continuità aziendale». Il discorso è semplice semplice: se le big del calcio italiano continuano a far rotolare il pallone è perché c’è qualcuno alle spalle che li sorregge, altrimenti dovrebbero chiudere bottega. Ora che la crisi ha travolto le aziende dei mecenati e che questi ultimi hanno dovuto ridurre drasticamente i finanziamenti delle squadre-giocattolo, tutto è cambiato. Ecco perché Ibrahimovic — l’ultimo della lista — è andato via. Dovendo camminare con le proprie gambe, la società rossonera non è più in grado di pagargli 12 milioni di stipendio netto. Tutto previsto Non si scappa di fronte ai numeri. Quegli stessi con cui a marzo la Gazzetta lanciò l’ennesimo allarme sulla situazione del calcio italiano: la Serie A ha sì un fatturato di 1,6 miliardi, ma nel 2010-11 ha prodotto un deficit di 285 milioni e accumulato debiti netti per 1,55 miliardi, in assenza di asset che non siano i volatili (in tutti i sensi) calciatori. Quella gestione totalmente fuori controllo è dovuta principalmente alle realtà che, nel bene e nel male, trainano l’intero movimento: ossia le grandi. Se la Juventus, dopo la caduta di Calciopoli, ha impostato una strategia anti-ciclica rispetto alla crisi per rientrare nel giro europeo pianificando massicci investimenti compreso lo stadio, le milanesi si sono adattate allo spirito del tempo. Anche in questo caso, parlano le cifre. Mediaset, il fiore all’occhiello del gruppo Fininvest, ha perso in Borsa l’80% dall’aprile 2010 a oggi. Il calo pubblicitario e le difficoltà della pay tv avevano portato, la scorsa estate, a varare un piano triennale di tagli di 250 milioni all’anno: secondo il Sole 24 Ore, adesso si è saliti a quota 400. Aggiungiamoci il salasso di 564 milioni che la famiglia Berlusconi ha dovuto pagare a De Benedetti per il lodo Mondadori e il quadro è fatto. Passiamo all’Inter. Massimo Moratti era solito assecondare i sogni dei tifosi utilizzando i ricchi dividendi della Saras, dalla cui quotazione a Piazza Affari nel 2006 incassò 800 milioni. Il colosso della raffinazione petrolifera, però, non distribuisce cedole dal 2009, ha chiuso i bilanci 2010 e 2011 in rosso e nelle sue relazioni parla di «scenario congiunturale decisamente complesso». Tagli Sono lontani i tempi in cui il Milan poteva ingaggiare un Pallone d’oro come Papin per fare da riserva a Van Basten. Già da un po’ rossoneri e nerazzurri si sono votati all’austerity. Non a caso, il saldo cessioni-acquisti delle ultime tre stagioni è stato addirittura positivo: +15 milioni per l’Inter, +25 per il Milan. Questa è l’era dell’autosufficienza e bisogna cominciare a immaginare le squadre del cuore come vere e proprie aziende: si può spendere solo quel che si ricava. Le big hanno un rapporto tra stipendi e fatturato fuori controllo: 88% per l’Inter (190 milioni di ingaggi e 217 di fatturato), 85% per il Milan (206-243). È vero che negli ultimi sei anni Galliani è riuscito a sistemare i conti in due occasioni, cedendo Shevchenko (2006, utile di 11,9 milioni) e Kakà (2009, -9,8), ma adesso le plusvalenze non bastano. Perché sono un tampone che val bene per l’anno in corso. Qui, invece, la prospettiva è di stringere la cinghia per più tempo. Ecco perché sia Moratti sia Berlusconi si stanno liberando dei contratti più onerosi: solo abbattendo il monte-stipendi la gestione costi-ricavi può normalizzarsi. Prospettive È un senso d’impotenza quello che pervade il management italiano, figlio anche di un giro d’affari che pare aver raggiunto il suo apice. Impossibile pretendere di più dalle tv, l’area commerciale si scontra peraltro con specificità culturali che difficilmente ci faranno raggiungere i livelli d’introiti delle inglesi. Restano gli stadi, con la fantomatica legge che entro l’anno dovrebbe essere approvata dal Senato. Ma il presente è quello che è sotto gli occhi di tutti. L’idea di un calcio finalmente sostenibile, tuttavia, non ci dispiace affatto. Marco Iaria