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 2012  luglio 18 Mercoledì calendario

L’INESPLICABILE GERGO DELL’ANGOLO PIATTO ODIATO DA GOETHE

Attenti agli angoli! Vi si annidano pericoli per gli improvvidi portieri nelle partite di calcio (gli insidiosi «calci d’angolo») o punizioni per i piccini (di una volta), costretti a ritirarvisi da severi genitori o insegnanti. Ma che dire di un angolo piatto? Sembrerebbe un controsenso, eppure la geometria è riuscita a inventarsi una cosa del genere! Quanto agli esperti di aritmetica, hanno per esempio creato lo zero, «un numero per il nulla»: eppure fino ad allora numero significava la quantità, e non l’assenza della medesima. Ne fanno le spese quegli studenti che provano a dividere per zero, anche se l’insegnante glielo vieta! Se una torta viene divisa in parti uguali, poniamo fra tre commensali, tutto va bene: a ciascuno ne tocca la terza parte; ma è già strana la «divisione per uno» (comunque il fortunato la torta se la mangerà tutta). E se non c’è nessuno? Si potrebbe pensare che la torta resti intatta, destinata ad ammuffire; invece, almeno stando ad alcuni matematici trasgressivi, dall’India medievale all’Inghilterra di Isaac Newton, la torta diventerebbe... infinita! Goethe rimproverava ai matematici «di fare come i francesi, che traducono tutto nel loro inesplicabile gergo». Non molto tempo dopo uno dei più profondi matematici dell’Ottocento, Bernhard Riemann, metteva in guardia dal «lasciarsi incantare dai pregiudizi che ci vengono trasmessi dal linguaggio senza che nemmeno ce ne accorgiamo». Non biasimiamo troppo l’angolo piatto: se un angolo non è altro che la porzione di piano individuata da due semirette, perché non ammettere anche il caso della «piattezza», che si verifica quando le semirette sono parte della stessa retta. Fate un piccolo esperimento con due bastoncini uniti per un vertice, tenendone fermo uno e facendo ruotare il secondo, fino a che i due non si trovino allineati. Ecco l’angolo piatto di fronte ai vostri occhi! In matematica, come diceva il grande probabilista Bruno de Finetti, bisogna «saper vedere». Ma occorre anche saper comunicare: il buon uso delle parole dovrebbe essere l’arma di ogni buon insegnante. La matematica ha bisogno insieme di fantasia e di precisione, di immaginazione e di rigore, non meno della grande letteratura. E per usare una battuta di Georg Cantor, ottocentesco teorico dei numeri infiniti, la «libertà della matematica» viene umiliata ogni volta che ci si riduce a un gergo di specialisti, cioè a un gioco di prestigio linguistico che taglia fuori i non addetti ai lavori, perdendo quell’aspetto di emancipazione dai pregiudizi ricevuti che fa del lavoro matematico una forza di progresso civile. Checché ne pensasse Goethe dei «francesi», il confronto tra matematica e lingua può arricchire sia l’una che l’altra, proprio perché si tratta non di codici dati una volta per tutte, ma di pratiche aperte al cambiamento.
Giulio Giorello