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 2012  luglio 18 Mercoledì calendario

NELSON MANDELA


Popole ha 16 anni, ma ne dimostra molti di più. Ha i piedi scalzi e il volto incrostato di sporcizia. Trascorre la giornata inginocchiato all’incrocio tra Central Street e Glenhove Road, chiedendo l’elemosina a mani giunte alle auto ferme in attesa che il semaforo diventi verde. E come lui, tanti altri ragazzi, donne con bambini, uomini incurvati dalla fame, — sparsi per le strade di Johannesburg e di ogni città del Sudafrica: incarnano la contraddizione più evidente di una delle cinque potenze economiche emergenti nel mondo, che in quattro anni costruirà il più grande radiotelescopio del mondo ma nello stesso tempo ha uno dei più alti tassi di povertà infantile e di disoccupazione giovanile. Nessuno dà retta a Popole, sebbene a pochi passi, nel quartiere di Houghton, tra magnifiche ville protette da muri altissimi con il filo spinato elettrico e cartelli di «Risposta armata», ci sia una delle residenze di Nelson Mandela. Neanche lui, il “Grande Uomo”, è riuscito a restituire piena dignità e potere d’acquisto ai neri, 1’80 per cento dei 51 milioni di sudafricani, dopo la fine del regime dell’apartheid.
PRESIDENTE NERO Benché il nome e le sue frasi siano costantemente evocati negli editoriali e nei discorsi dei leader del partito di maggioranza, l’ANC, in molti ammettono che il processo di riconciliazione da secoli di discriminazione razziale, avviato nel 1990 con la liberazione di Mandela dal carcere di Robben Island e culminato quattro anni più tardi con la sua elezione a primo presidente nero, non sia mai stato completato. Tanto che oggi si discute della necessità d’una “seconda transizione”, principalmente economica.
Mandela, tuttavia, qui non si tocca. Il suo compleanno, il 18 luglio, è festa nazionale. Le critiche, spesso violente, riguardano i suoi successori, il distaccato Thabo Mbeki e l’eccessivo Jacob Zuma, mentre “Madiba” (così lo chiamavano gli anziani della famiglia) con il Nobel per la Pace del ‘93 ha assunto il ruolo di icona globale. Bianchi e neri temono il giorno della sua morte, preoccupati dal modo in cui la sua eredità — umana, intellettuale e politica — sarà gestita. E soprattutto da chi se ne farà carico, tra una famiglia numerosa, un nipote parlamentare al centro d’un divorzio-show nel quale è accusato d’aver già venduto i diritti dei funerali del nonno, e un presidente a dir poco controverso: sposato con 4 donne, padre di 22 figli e protagonista di clamorosi scandali sessuali, Zuma è stato raffigurato di recente da un pittore bianco come un novello Lenin con i genitali di fuori. Alle soglie dei 94 anni, è lecito attendersi che prima o poi accada, specie dopo il breve ricovero in ospedale che a febbraio ha gettato il Paese nello sconforto. Mandela non appare in pubblico da tempo e concede qualche sorriso forzato nelle foto con i personaggi a cui dà udienza sempre più di rado. «Sono andato a trovarlo un mese fa», racconta Kweku Mandela Amuah, uno dei nipoti. «Non si muove quasi più, ma ha un ottimo spirito e la mente lucida. Legge sei-sette quotidiani, non vede la tv, prende il tè con un paio di amici e riflette molto: si siede in soggiorno e pensa per ore a quello che ha fatto nella sua esistenza. La vita scorre più velocemente per chi ha passato 27 anni in prigione e ne è uscito a cavallo tra due secoli, senza aver mai visto un telecomando o un cellulare. Ha dovuto imparare cose che gli sembravano impensabili: credo sia naturale che cerchi di cogliere il significato del progresso».
GRANDE EREDITÀ Kweku è un ragazzone di 26 anni. È figlio di Makaziwe e nipote di Evelyn Mase, prima delle tre mogli di Mandela, il quale ora vive con Graça Machel, vedova dell’ex presidente del Mozambico. Fa il produttore cinematografico e la sua società, “Out of Africa”, ha sede in una villetta nel quartiere di Emmarentia. Sta completando un documentario, Mandela’s Children, per il quale ha chiesto ai suoi venti cugini (i bambini del titolo) di intervistare il nonno per una settimana. «Ho raccolto tre generazioni, dai 6 ai 42 anni, e ho preteso che gli venisse rivolta qualsiasi domanda personale, dalla prima cotta ai suoi miti. Milioni di giovani nel mondo conoscono il nome e la faccia di Mandela, ma non sanno chi sia e cos’abbia fatto: voglio rivolgermi soprattutto a loro». All’inizio del 2013, con partner inglesi e canadesi, comincerà a lavorare a una serie tv su Madiba. «Saranno sei o otto puntate: Nigel Williams, Fautore per Channel 4 di un serial su Elisabetta I con Helen Mirren, sta ultimando la sceneggiatura», spiega. «Diffondere l’eredità di mio nonno è una grande responsabilità: nessuno mi spinge a farlo». Dietro, naturalmente, c’è pure il business. Kweku ha già venduto i diritti alla prima rete sudafricana ed è in trattative con gli americani di Sky Atlantic. Ma anche altri stanno cercando di trasformare l’immagine e la storia eroica di Mandela in un brand da prima serata. Il 26 maggio sono iniziate le riprese di un biopic, coproduzione anglo-francese, con Idris Elba nel ruolo del protagonista: quanto basta a riaccendere le polemiche sul rischio di nuova colonizzazione culturale, scatenate dal film con Jennifer Hudson su Winnie, la seconda moglie di Nelson, rappresentata come una femme fatale con grandi cappelli e abiti firmati, anziché la passionaria della lotta all’apartheid. Presentata l’anno scorso al Festival di Toronto, la pellicola non ha ancora un distributore. Winnie, intanto, a 75 anni è risalita nella gerarchia dell’ANC, dopo esser finita in tribunale per l’omicidio di un quattordicenne da parte di una sua guardia del corpo, e con una condanna per frode. Due sue nipoti, Zaziwe e Swati Dlamini, insieme a una cugina - Dorothy Adjoa Amuah, sorella di Kweku - stanno registrando da alcune settimane a Johannesburg un reality show sulla propria vita, che dovrebbe essere trasmesso entro il 2012. «Non siamo le Kardashian del Sudafrica», puntualizzano. «Piuttosto vogliamo mostrare la vita di tre donne africane trentenni, molto diverse tra loro (una sposa felice con tre figli, una madre separata e una single) anche se tutte cresciute negli Usa, che cercano di affermarsi per quello che sono e non per il nome che portano». Il titolo del programma sarà Life + Legacy, La vita e l’Eredità. Evidentemente, quella di Mandela comincia a essere pesante. Ne sa qualcosa Jacob Zuma, capo di una nazione che finora ha evitato di farsi travolgere dalla crisi globale grazie a enormi giacimenti minerari e a un’oculata gestione delle banche, ma ha comunque indicatori interni assai contraddittori. Il Sudafrica continua a essere percepito come un Paese violento, malgrado omicidi e rapine dal ‘94 siano diminuiti del 53%. In compenso sono aumentati i reati fiscali e contro la pubblica amministrazione. Il ministero dell’Interno ha tappezzato la strada che conduce all’aeroporto di Johannesburg di manifesti su cui è scritto: «Pagare tangenti è corruzione», come se il problema fosse solo di definizione. Il 10,6% dei sudafricani è sieropositivo: nel 2011 ci sono stati 316.900 nuovi casi, di cui un quinto nella popolazione tra O e 14 anni. Secondo l’ultimo rapporto dell’Unicef, 11,5 milioni di bambini, su un totale di 19 milioni, sono in condizioni di povertà; 1,5 milioni non hanno acqua corrente; 1,7 milioni risiedono in baracche; un adolescente su quattro vive in famiglie in cui nessuno lavora. Il tasso di disoccupazione dei giovani fra 15 e 24 anni (dati dell’Institute of Race Relations) è del 48,1%, rispetto all’ll% dei Paesi dell’Africa sub-sahariana e al 23,7% di quelli nordafricani.

DIVISIONE RAZZIALE «Oggi esiste una divisione in classi che replica la divisione razziale d’un tempo», dice Michael Schmidt, direttore dell’Istituto per lo sviluppo del giornalismo, nell’ufficio da cui domina Johannesburg. «Si sta verificando un’apartheid economica, per cui i poveri sono sempre più poveri, le township che dovevano scomparire sono ancora lì, gli operai non guadagnano abbastanza per comprare ciò che producono, e all’élite bianca del regime di vent’anni fa si è aggiunta una classe media nera agiata di non più di 300 mila persone. Tutto ciò non è solo l’effetto del governo degli ultimi anni: anche Mandela ha delle responsabilità, ma pochi vogliono vederle. La sua figura è stata quasi beatificata, come un nuovo Gandhi, per cui tutto ciò che ha fatto è sacrosanto, mentre anche la critica aiuterebbe a restituirgli una dimensione umana, al di là del mito: Madiba è stato un uomo di partito che ha ceduto al compromesso per riconciliare il Paese, respingendo le richieste dell’ala estremista dell’ANC di nazionalizzare le miniere e consentendo ai bianchi di rimediare ai danni imposti all’economia da anni di boicottaggio internazionale e isolamento commerciale». Che ci sia o meno una continuità, certo non fanno parte di quel che resta di Mandela alcuni progetti faraonici lanciati per il Mondiale di calcio del 2010, del tutto inutili. Uno è stato completato pochi giorni fa: è il “Gautrein”, una ferrovia leggera che unisce Johannesburg a Pretoria. I treni sono sempre vuoti perché anche il biglietto più economico (circa due euro) è troppo costoso per i pendolari neri, che preferiscono viaggiare dentro minivan scassati. «Oggi abbiamo bisogno di concentrarci sul futuro», dice Achmat Dangor, «di avere un piano di lungo termine e seguire l’esempio di Mandela e dei suoi compagni: non chiedersi “cosa posso fare per me”, ma “cosa posso fare per la comunità e per il Paese”». Dangor, di origini indiane come il 2,5% della popolazione, è il direttore del Centro della memoria, l’archivio su Madiba che Google ha digitalizzato e trasformato in museo virtuale aperto al mondo, donando 1,25 milioni di dollari. È lui a coordinare tutte le iniziative della Fondazione Mandela, comprese quelle per il compleanno del 18 luglio. «Il governo ha adottato 94 progetti-pilota, quanti sono gli anni di Nelson, per migliorare la qualità delle scuole elementari nelle aree più povere. L’educazione è vitale: permette di costruire nuovi cittadini, di arricchire i giovani dando loro un’opportunità e di far crescere un Paese che ha ricominciato a vivere solo diciotto anni fa ed è stato forse troppo ottimista sulla propria capacità di introdurre alcuni cambiamenti radicali nella società in tempi molto brevi. A diciotto anni si diventa maggiorenni, ma è ancora presto per essere davvero maturi».