GIOVANNA ZUCCONI, Tuttolibri-La Stampa 14/7/2012, 14 luglio 2012
“Il momento è delicato: rileggo Cechov” - C’è questa idea della scrittura come artigianato, come vero e proprio lavoro manuale fatto di perizia e di pazienza, «costruisci un tavolo e poi vedi se sta in piedi oppure devi mettere un rinforzo, piallare, rifare tutto»
“Il momento è delicato: rileggo Cechov” - C’è questa idea della scrittura come artigianato, come vero e proprio lavoro manuale fatto di perizia e di pazienza, «costruisci un tavolo e poi vedi se sta in piedi oppure devi mettere un rinforzo, piallare, rifare tutto». Ammaniti, il mio falegname mentre pialla ascolta musica. Ha tutto, davvero tutto Bob Dylan, bootlegs minimi inclusi, e anche Dylan partecipa al festival Collisioni dove lei oggi terrà un reading dal suo ultimo libro Il momento è delicato (il mio falegname, lui no, non ci sarà). Anche lei ascolta musica mentre scrive? E mentre legge? «Sì, sempre. Sia leggendo, sia scrivendo. Cose molto diverse fra di loro. Non rock, ecco: quello lo sento quando ascolto musica e basta. Jazz, musica indiana, musica contemporanea...». Musica contemporanea? Quanto contemporanea? Si spinge fino all’esoterismo, fino all’astruso compositore lettone? «Lituano sì. Arvo Pärt, per esempio. Scopro un autore su itunes, poi se mi piace ordino il cd, e quando mi arriva per posta è una soddisfazione. Poi magari lo alterno con Laura Pausini o Tiziano Ferro, ecco. Ascolto molte colonne sonore, per esempio quelle di Hans Zimmer, il soundtrack di Tree of Life a ripetizione... Mi piace l’andamento epico, l’aspetto visivo, immaginare film dal libro che ho fra le mani». Libro che sta leggendo o che sta scrivendo? «Mentre scrivo cambio ascolto spesso, a seconda della situazione. Quando leggo invece metto su un disco e lo lascio andare». Domanda classicissima: quand’è che scrive? «Di mattina. Sono più produttivo appena sveglio». Come Moravia. «Ma in maniera poco moraviana: molto meno precisa e metodica. Questo però accade quando una storia mi sta già prendendo parecchio. Se invece non ho ancora trovato la voce giusta per raccontarla non mi va di scrivere, è quasi un fastidio. Una forzatura. Pesante». È sempre stato così? «Sempre. Quando ho una storia, mi sembra sufficiente dirla, raccontarla oralmente. Invece so che avrà necessità di parole, di una vera lingua, scritta, di una tonalità tutta sua, e questa è una fase rognosa. Una forzatura, appunto. Prima, però, la racconto a voce, magari nel corso degli anni, e più la racconto più la raffino nei particolari, sistemo quello che manca, costruisco dinamiche, acquisto consapevolezza». Ma come fa, mi scusi: va nei bar più malfamati di Caracas, o di Roma, e declama? Cerca un pubblico? E poi, tiene conto o no delle reazioni degli ascoltatori? «Reazioni troppo dettagliate mi creano problemi, preferisco quelle generiche. Adoro, invece, che mi facciano degli appunti quando ho già scritto e leggo una prima stesura. Antonio Manzini (due dei racconti di Il momento è delicato li ho scritti insieme a lui) è un ottimo ascoltatore, aggiunge idee. Mia moglie invece è più logica, scuote la struttura e così si capisce se tiene o crolla miseramente». Il famoso artigianato: un testo è come un tavolo, a volte sta in piedi, altre no. «Quando c’è un intoppo della trama è divertente, magari scopri che il protagonista non è quello che credevi ma un altro e tutto si sistema. È la parte più interessante della scrittura». Ma questa fase orale (scusi la battuta: detta al figlio di uno psicanalista, poi) quanto dura? «Ho in testa dieci o quindici storie contemporaneamente. Quella che vorrei scrivere non la sto raccontando più a voce perché sono anni che lo faccio, chi mi conosce già la sa». Non le chiedo che storia è, tanto non ce lo direbbe. Ma perché, fra le tante che le affollano la testa, proprio questa e non un’altra? «È come con il cibo. A volte hai voglia di una bistecca, altre volte di una pastasciutta. Chissà perché. In generale, se ho scritto una cosa complicata ne seguirà una semplice, e viceversa». Nei periodi in cui scrive, legge? «Sempre. Non ho stagioni preferite, non ho rituali particolari, nel tempo libero leggo e basta. Certo, con il tempo cambia la maniera, ora sono più attento alla scrittura e meno alla trama». E che cosa legge? «Amo sempre la letteratura di genere. Fantascienza, thriller. Rileggo anche cose vecchie, perché dimentico tutto o quasi. Da poco, con meraviglia, ho riletto i racconti di Cechov». Cechov non è precisamente letteratura di genere, mi scusi. «È il mio genere». Bella battuta, grazie. Ma che cosa ricorda, dei libri letti? «I caratteri, le spinte e le necessità dei personaggi. Di Bel Ami , del Conte di Montecristo , di Anna Karenina ricordo questo: i caratteri». Come è entrato in contatto con i classici? «Erano in casa. Non sono stato precocissimo, ma a un certo punto ho scoperto la lettura. Per fortuna avevo lunghi periodi di noia, per esempio in campagna d’estate. Poi, nella tarda adolescenza e all’università, quando facevo una vita più stressata, leggere era uno spazio personale, comodo. Una casa. Vai lì e stai. Leggevo tantissimo». Ma in famiglia imponevano letture al piccolo Ammaniti? «Chi leggeva, dei piccoli e dei grandi Ammaniti, non veniva disturbato, tutti evitavano di parlarci. Quando leggevo mi lasciavano in pace. Il massimo». E poi si discuteva, in famiglia, dei libri letti? «Ma no. Qualcuno per esempio diceva che La linea d’ombra di Conrad era bellissimo, gli altri concordavano, e finiva lì. Nessun approfondimento critico, zero dibattiti. Tutt’al più qualche consiglio: leggi questo, è magnifico». Massima naturalezza nella lettura. Molto diversa dal fastidio, dalla forzatura di cui parlava a proposito della scrittura. «L’analisi critica di quello che leggi però è condizione necessaria alla scrittura. Per scrivere, devi chiederti perché un libro ti è piaciuto. Dalle domande, cominci a vedere i nodi del tappeto. Come è fatto, come funziona». E questo l’ha imparato grazie a qualcuno? «Tutta roba mia. Dalla scuola, zero. I Promessi Sposi mi face- vano schifo, tranne la peste e don Rodrigo. Poi li ho riletti come un libro qualsiasi, senza spiegazioni, senza note a pie’ pagina, e mi sono piaciuti moltissimo. L’importante è trovare strade personali. Da Pat Metheny, per progressiva fiducia nella casa discografica che lo pubblicava, arrivai a Keith Jarrett. O da Arvo Pärt vai a esplorare la musica polifonica vocale, fino a Gesualdo da Venosa, o a Couperin». La fiducia nell’editore vale anche per le letture? «Difficilmente le case editrici hanno l’organicità per esempio di un’etichetta come la Ecm, quella di Pat Metheny eccetera. Adelphi? Quando pubblicava Kundera non mi interessava affatto, con Simenon o Canetti invece sì. Ma i miei editori di riferimento sono stati, verso al fine degli anni Ottanta, Sperling&Kupfer e Leonardo. Trovavi Stephen King, Dean Koontz, l’horror, il noir... Nella letteratura di genere, il rischio patacca è altissimo. Ma ci sono anche delle meraviglie». Un italiano contemporaneo che le piace? «Sebastiano Vassalli, all’epoca, mi folgorò». Le piace conoscere personalmente gli altri scrittori? «Viaggiare per l’Italia e per il mondo è una delle cose belle dello scrivere. Fare amicizia con alcuni altri scrittori, certo. E sentire la responsabilità verso i lettori. Se una mamma mi dice che suo figlio ha cominciato a leggere con me, lo stimolo è forte». Che cosa sta leggendo adesso? «Sto cercando di finire Murakami, che ho per le mani da mesi. Mi piace, ma a dosaggio limitato. Poi. Mettimi in un sacco e spedisci , racconti brevi ma sempre con gli stessi personaggi di Tim O’Brien: suo è Inseguendo Cacciato , il più grande romanzo sul Vietnam, storia di un soldato che diserta e si incammina a piedi verso Parigi. Sto rileggendo Amico della terra di Coraghessan Boyle, autore che amo molto. E i racconti di Clive Barker, Visi di sangue. Per esempio quello in cui le mani si ribellano e si amputano a vicenda, eserciti di mani amputate... Fa molto ridere».