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 2012  luglio 14 Sabato calendario

Sepolti nel ghiaccio La Spoon River del Monte Bianco - L’ inverno dei «fiocchi» di carta fu quello del 1966

Sepolti nel ghiaccio La Spoon River del Monte Bianco - L’ inverno dei «fiocchi» di carta fu quello del 1966. Fu nevoso, ma tra i cristalli che scendevano dal cielo del Monte Bianco si mescolavano foglie di un inesistente albero di pietà e memoria, lettere catturate dal vento nella carlinga squarciata di un Boeing 707 esploso alle 8,02 del 24 gennaio fra ghiacci e rocce della Tournette, a 70 metri dalla vetta. Nessun superstite, 117 vittime (11 dell’equipaggio). Una «Spoon River» di struggenti lettere d’amore o di freddi scritti commerciali, di auguri e contratti. Il Bianco come la collina costellata di croci e di storie raccontata in versi da Edgar Lee Masters. Cimitero di un paese americano immaginario con storie e croci vere, mentre la montagna conserva croci mai piantate ed epitaffi abbozzati con righe misteriose. L’esplosione del 1966 in una bufera di neve che separò quel velivolo dell’Air India denominato «Kangchenjunga» (Ottomila himalayano) dal suo imminente atterraggio nell’aeroporto Cointrin di Ginevra fu la seconda vicino alla cima del tetto d’Europa. La prima accadde il 3 novembre del 1950. Quarantotto morti e sempre su un aereo dell’Air India, il «Malabar Princess», un quadrimotore Constellation. In entrambi i casi le sepolture furono soltanto di resti non identificati. Due incidenti senza spiegazione che hanno un fil rouge a legarli. Non soltanto per certezze, ma anche per leggende o fatti smentiti. Nel 1950 nella stiva del «Malabar Princess» avrebbero dovuto esserci cento lingotti d’oro; nel 1966 fra la posta del «Kangchenjunga» c’erano due valigie di documenti riservati e forzieri di gioielli. Le due valigie furono ritrovate ma le autorità indiane smentirono l’importanza dei documenti («Nulla di riservato»), mentre negarono l’esistenza di diademi e collane di pietre preziose. I resti dei due incidenti si sono mescolati sul ghiacciaio del Miage, in Val Veny. Tra questi una treccia bionda di due metri, il basco di una hostess, un berretto e un brevetto di pilota di E. W. Callaway che non figura né nell’equipaggio né tra i passeggeri dei due tragici voli. La realtà suggerisce altre coincidenze: nel 1966 fra i passeggeri del Boeing 707 c’era l’italiano Giovanni Bertoli che in qualità di responsabile per l’Europa della compagnia aerea indiana faceva parte della commissione d’inchiesta sull’incidente di 16 anni prima. E la guida alpina che coordinò i soccorsi sul versante francese nell’inverno del 1966, Georges Payot, era figlio di René, guida che morì inghiottito da un crepaccio mentre risaliva i ghiacciai del Bianco nel 1950 alla ricerca delle vittime del «Malabar Princess». René morì anche a centro metri dal luogo dove il ghiacciaio aveva tradito il fratello nel 1939. La fantasia, suffragata da alcuni elementi, offre invece un intrigo internazionale mai spiegato ma ipotizzato da Daniel Roche, di Lione, che da anni frequenta i ghiacciai del Bianco alla ricerca dei resti dei due incidenti. Ha riempito un magazzino e si è fatto l’idea che il Boeing sia stato abbattuto. Prove? Nessuna. Ma tra le vittime c’era Homi Jehangir Bhaba, responsabile del centro di ricerca atomica dell’India in viaggio per Ginevra dove l’aspettava un congresso. Qualche mese prima Bhaba aveva annunciato che l’India era pronta per assemblare la sua bomba atomica, anche se aveva aggiunto: «Ma a noi interessa sviluppare un progetto energetico, non bellico». Roche è alla continua ricerca della scatola nera del «Kangchenjunga» che potrebbe offrire un perché alla sciagura. Il giorno dopo l’esplosione insieme con le lettere scivolò fra i fiocchi di neve anche un nastro registrato di oltre un metro. La voce registrata era però quella di un bimbo che faceva gli auguri in inglese ai suoi parenti lontani, forse di Londra o New York, ultime tappe del lungo volo del Boeing. La commozione riempì gli occhi di lacrime agli inquirenti speranzosi che quello spezzone fosse uscito dalla memoria dell’aereo. Il Bianco tiene fra i suoi ghiacci dal 1950 ad oggi i corpi di 140 dispersi, alpinisti ancora non riemersi. Fra questi le 8 vittime dell’incidente del 2008 sul Mont Blanc du Tacul, la stessa montagna dove sabato è affiorata una mummia forse di mezzo secolo fa. Erano le 3,15 quando 47 alpinisti salivano la prima parte del ghiacciaio. Si staccò un seracco alto 15 metri che spezzò il manto nevoso provocando un’enorme valanga. Gli 8 sono ancora in crepacci profondi 30 metri. Lo stesso numero di vittime in un’altra alba tragica, lungo la via normale delle Grandes Jorasses, accadde il 2 agosto del 1993. Per 5 di loro fu una tomba candida.