Arturo Zampaglione, Affari & Finanza, La Repubblica 16/7/2012, 16 luglio 2012
TUTTO IL MONDO È LAS VEGAS SFIDA ALLA CRISI SUL TAVOLO VERDE
New York - Uniti in alto da una lunga piattaforma, da dove si ammira lo skyline di Singapore e dove si può anche nuotare in una piscina di 150 metri sospesa nel vuoto, i tre edifici del Marina Bay Sands, progettati dall’architetto israelo-canadese Moshe Safdie, ricordano un futuristico castello di carte. Non è un caso: il complesso - composto da un hotel di 2561 stanze, un museo, due teatri, 74mila metri quadri di boutique di lusso e persino una pista per pattinare sul ghiaccio a dispetto del clima tropicale - ruota attorno al più grande casinò del mondo. Lì, di fronte alle 1600 slot machines dietro ai 500 tavoli verdi, una nuova leva di giocatori d’azzardo trascorre i giorni e le notti, regalando milioni a Las Vegas Sands, il colosso internazionale del settore fondato dall’ultraconservatore Sheldon Adelson, oltre che al governo di Singapore sotto forma di tasse e di biglietti d’entrata per i residenti. Secondo Josephine Teo, ministro delle finanze della città-stato, Singapore ha incassato dai suoi due casinò, il Marina Bay e il Resorts World Sentosa, che si affaccia sul mare e fa capo al gruppo Genting Singapore, mezzo miliardo di dollari di introiti fiscali nel 2010 e 850 milioni l’anno scorso. E solo nel primo semestre di quest’anno ha raccolto 70 milioni facendo pagare ai suoi residenti - anche per scoraggiarne gli eccessi e minimizzare i contraccolpi sociali - 80 dollari per ogni ingresso o 1500 per l’abbonamento annuale. A fronte di queste gabelle, i due casinò hanno avuto ricavi complessivi per 5,1 miliardi di dollari nel 2011, che dovrebbero salire a 6,4 quest’anno: superando per la prima volta il giro d’affari della strip di Las Vegas, che ha sicuramente una storia più lunga e più gloriosa. Sì, perché Singapore è una nuova arrivata nel business mondiale dei tavoli da gioco. Ha tolto il divieto legislativo solo nel 2005 e il Marina Bay Sands, costruito con un investimento di 6 miliardi di dolalri, ha aperto i battenti appena due anni fa, nel 2010. Come spiegare il boom in tempi record? La realtà è che, dopo essere rimasti segregati per decenni in piccoli principati come Montecarlo, o in città nel deserto come Las Vegas, o in località di frontiera come Campione d’Italia, i casinò si stanno diffondendo a macchia d’olio, avvicinandosi ai loro clienti: a cominciare dai nuovi ricchi della Cina comunista che non esitano a scommettere (e perdere) milioni di yuan a baccarat, il loro gioco preferito. La prima a intuire il nuovo trend (e ad approfittarne) è stata Pechino, che nel 2001 ha permesso che Macao - l’ex-colonia portoghese sulle coste della Cina meridionale, diventata una Sar (regione amministrativa speciale) come Hong Kong aprisse le porte ai casinò. Grazie a massicci investimenti dei due big di Las Vegas, Steve Wynn e lo stesso Adelson, e grazie soprattutto alla sua posizione strategica - 100 milioni di persone possono raggiungerla in meno di 3 ore di guida e un miliardo in meno di tre ore d’aereo - Macao (o Macau, come si scrive in portoghese) ha presto superato Las Vegas. Ora è almeno quattro volte più grande per giro d’affari (34 miliardi di dollari nel 2011). Solo nel mese di giugno gli incassi di Macao sono stati di 2,92 miliardi di dollari: certo, l’aumento è stato minore delle aspettative per via della crisi mondiale e del rallentamento dell’economia cinese, ma è stato pur sempre del 12,2 per cento in più rispetto ai livelli dell’anno scorso. E la scommessa sul futuro delle scommesse continua: ad aprile il gruppo Sands ha aperto una nuova struttura a Cotai, la nuova zona di espansione di Macao, e continua ad esplorare nuove frontiere del kitsch: come i lampadari con un milione e 300mila lampadine al led o le gondole improbabili del suo nuovo Venetian, una replica di quello che ha costruito a Las Vegas (e un nuovo affronto alla città lagunare). Sempre a Cotai, Wynn sta costruendo un casinò da 4 miliardi di dollari. Dice: «Sarà il progetto più significativo della nostra storia aziendale». Ma che ne sarà della vecchia Las Vegas? Che fine faranno le false piramidi, i falsi castelli, i falsi colossei, i falsi circhi, i falsi palazzi toscani, che per una generazione hanno alimentato la passione per il gioco degli americani e la curiosità di milioni di turisti, oltre che i profitti del settore? Non c’è dubbio che la città del Nevada abbia subito un forte contraccolpo per la Grande Recessione. Già abbastanza rientrati, a dire la verità. Quest’anno il numero dei visitatori secondo le proiezioni dell’università del Nevada - tornerà ai livelli record pre-crisi: 39,2 milioni di presenze, migliorando i conti delle aziende turistiche, che beneficiando anche di conferenze, concerti e persino di partite di calcio: come quella che la Juventus disputerà il 5 agosto contro il Real Madrid. Non bisogna pensare che la guerra dei casinò sia solo tra Las Vegas, Macao e ora Singapore. Al di là delle capitali d’altri tempi, che ancora sopravvivono, ma sempre più a fatica, come Montecarlo o Venezia; al di là degli immancabili tavoli verdi sulle navi da crociera, degli hotel di Punta del Este (o di quelli dei Caraibi cari a James Bond) e dell’impennata del poker on-line, stanno nascendo altri poli geografici con aspirazioni globali. Dopo un referendum, le isole di Matsu che fanno parte di Taiwan (e che hanno il nome della dea cinese) hanno deciso di aprire la porta ai casinò in concorrenza con quelli dei “cugini” di Macao e di Singapore. Nelle Filippine negoziati simili sono a buon punto. E per l’Europa la vera rivoluzione si avrà a settembre quando il Las Vegas Sands di Adelson (quotato a Wall Street con la sigla LVS) deciderà se costruire a Madrid o a Barcellona la sua testa di ponte sul vecchio continente, che avrà dodici alberghi, sei casinò e darà lavoro - così si dice - a centinaia di persone. Le due maggiori città spagnole si stanno ovviamente dando battaglia per ottenere il trofeo, promettendo facilitazioni, sconti fiscali e persino l’accantonamento delle regole del fumo nei luoghi pubblici. La ragione è semplice: in un paese dilaniato dalla crisi e dalla disoccupazione, la prospettiva di una fabbrica di denari e di posti di lavoro - ancorché drogata dal gioco d’azzardo - appare una fortissima tentazione. Ma è proprio questo il ricatto paradossale del boom delle roulette e dei tavoli di baccarat, chemin o blackjack: da un lato si distruggono risparmi e ricchezze personali in tempi record, con contraccolpi sugli equilibri sociali, dall’altro si producono miliardi di dollari, di euro o di yuan.