Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2012  luglio 16 Lunedì calendario

NON SOLO MODA NEL MIRINO DEGLI EMIRI C’È ANCHE LA SNAM


Articolo quinto, diceva il saggio Enrico Cuccia, chi ha i soldi ha vinto. E in un mondo dove i vecchi stati occidentali hanno le casse vuote, le banche non prestano soldi a nessuno e la finanza detta legge, i nuovi padroni del mondo hanno un nome e cognome preciso: fondi sovrani. Vengono dal Golfo Persico, da Singapore ora persino da Cina e Nigeria. E grazie a un arsenale di denaro contante salito in cinque anni da 2mila a 4.600 miliardi di dollari (il 6% del pil mondiale, mica noccioline) stanno ridisegnando a suon di fusioni e acquisizioni e tra mille polemiche - la mappa del potere economico globale. Facendo incetta di banche, griffe di moda (ultima Valentino, finita la scorsa settimana sotto la bandiera bianco rossa del Qatar), utility, palazzi e angoli di paradiso come la Costa Smeralda. Tutti, in qualche modo, li temono. Questi Moloch traboccanti liquidità, generata nel 54% dei casi dai proventi del greggio, non brillano per trasparenza di conti e obiettivi. I proprietari e gestori non sono sempre esempi preclari di virtù politica (il 72% fa capo a nazioni o famiglie regnanti “non democratiche” secondo la definizione della Economist Intelligence Unit). Eppure nessuno può più fare a meno di loro. Le banche dei paesi avanzati vengono travolte dallo scandalo Lehman? No problem. A puntellarle - perdendo spesso una valanga di quattrini - sono stati nella grande maggioranza dei casi i soldi di Abu Dhabi, di Singapore o del Kuwait. Senza andare troppo lontano, la Lybian Investment Authority di Gheddafi,
allora beniamino dei palazzi italiani e delle diplomazie europee, era stata accolta a braccia aperte e tra gli applausi di pubblico e soci nel capitale di Unicredit dopo aver dato una mano nei periodi più duri per il Lingotto anche a Fiat e Juventus. Pecunia non olet, specie quando in giro non ce n’è più molta. E i grandi fondi sovrani - tenuti in alta quota da un greggio che danza ormai da tempo attorno alla stratosferica quota di 100 dollari - sono ormai diventati gli unici acquirenti in un mondo dove invece, causa crisi, si stanno moltiplicando i venditori. Valentino, ultimo esempio, è finito senza colpo ferire tra le braccia della famiglia reale del Qatar, regina dello shopping finanziario (e anche calcistico attraverso il Psg) degli ultimi mesi. I numeri sono la fotografia più fedele della rapida ascesa di questi giganti armati di dollari contanti: nel 2011, un anno nero per fusioni e acquisizioni, loro hanno comprato aziende per 80,9 miliardi di dollari, il 72% in più rispetto all’anno precedente. La metà di questo gruzzoletto è servito per comprarsi banche o società finanziarie, vecchio pallino dei grandi burattinai al timone dei fondi sovrani. Ma negli ultimi tempi ha iniziato a prendere quota una sana diversificazione del rischio, con l’ingresso nel capitale delle utilities, l’acquisto di proprietà immobiliari, di vigneti nel Bordeaux. Più, quando hai soldi puoi pur concederti qualche capriccio, intere squadre di calcio come il Manchester City e il Paris Saint Germain. I ritorni finanziari non sono stati finora particolarmente soddisfacenti. Anzi, secondo un accurato lavoro sul settore del centro Paolo Baffi alla Bocconi, i rendimenti dei 4,6 trilioni di dollari investiti negli ultimi anni ha davanti un segno meno, figlio soprattutto della débacle dei titoli finanziari e delle banche. Ma i quattrini, per chi si affaccia per la prima volta alla ribalta del mondo, non sono tutto. Specie finché il petrolio continua a rimpinguarti le casse di casa a getto continuo. E non servono così i manuali di psicofinanza per capire che lo shopping compulsivo dell’ultimo lustro, concentrato tra l’altro su molti status symbol della cultura occidentale (le griffe della moda, la Porsche, le grandi banche Usa, i grattacieli di New York, la Costa Smeralda e i gioielli di Tiffany) è un modo per dire al resto del mondo «Eccoci, ci siamo anche noi». E visto lo stato di salute di voi occidentali possiamo pure portavi via i vostri pezzi migliori. Ridurre il tutto a un fenomeno di folklore, con i miliardi che ballano, è però riduttivo. E infatti in molti paesi occidentali l’attivismo dei fondi sovrani non è stato preso sottogamba e anzi ha iniziato a far scattare qualche campanello d’allarme. Specie da quando accanto ai tradizionali protagonisti del settore (i paesi del Golfo, Norvegia e Singapore, nazioni “vicine” al blocco Nato) si è schierata all’improvviso con una dotazione finanziaria impressionate la China Investment Corporation (Cic). I rapporti di forza geopolitici, in una mondo globalizzato, si giocano ormai più in punta di dollaro che di baionetta, con le materie prime (petrolio, gas, acqua, terra e minerali) come terra di conquista. E l’arrivo di Pechino ha sparigliato le carte. Washington ha bloccato qualche anno fa la scalata di Pechino alla petrolifera Unocal (stoppando pure l’offerta del Dubai sulla Peninsular and Oriental, società di gestione dei porti a stelle e strisce). E Francia, Germania e persino Italia, per non saper né leggere né scrivere, hanno riscritto le regole antiscalata per i propri settori strategici (difesa, energia, reti & C.) calibrandole sull’identikit dei minacciosissimi e ricchissimi fondi sovrani. Funzionerà? Si vedrà in futuro. Di sicuro, al momento, il rapporto è un misto di amore e di odio. Si alzano le barricate, ma poi si spiana la strada ai loro investimenti senza farsi mai troppe domande. Nel 2011 Abu Dhabi è entrato con una spesa di 5 miliardi nel capitale della spagnola Cepsa (petrolio), i cinesi hanno rilevato una quota della Gdf, uno dei gioielli di casa cui Parigi, di solito sciovinista sul fronte del protezionismo, tiene di più. Gli emiri del Qatar hanno preso un pezzo del Credit Suisse senza che nessuno facesse obiezioni e si sono messi in carniere pure una quota in Iberdrola. Lo stesso accade in Italia. Da una parte la Consob lancia qualche segnale d’allarme: il 36% delle società quotate - spiega uno studio della Commissione di via Isonzo - ha nel capitale un fondo sovrano e molti di questi colossi non sono poi nemmeno troppo trasparenti. Il 2% del valore del listino di Piazza Affari (nel resto d’Europa siamo già ben oltre il 3%) è parcheggiato nei loro portafogli. Poca roba, in apparenza, ma in forte crescita. Parole che pesano come pietre visto che in molti hanno corteggiato (la Libia in testa) la nostra politica per entrare nel capitale di aziende “delicate” come Finmeccanica e l’Eni. La prudenza dell’authority di via Isonzo è però allo stato una voce nel deserto. I soldi al nostro paese servono. E non a caso Mario Monti ha ricevuto ad aprile ufficialmente in pompa magna l’emiro del Qatar. E la dinastia degli Al Thani sta guardando con interesse a Fincantieri (punta soprattutto agli yacht e alle navi da crociera) e alla Snam, oltre che a Ibrahimovic e Thiago Silva e al rosso Valentino. La stessa Cic ha mandato molto emissari nel nostro paese per studiare nuovi investimenti. E quando si è candidata per aiutare la Cassa depositi e prestiti e F2I per giocare un ruolo nel riassetto delle nostre infrastrutture, nessuno le ha chiuso le porte in faccia. Nessuno si stupisce: turarsi il naso, in fondo, è obbligatorio, quando all’ingresso di casa tua si presenta un fondo come quello cinese che in cassa ha qualcosa come 400 miliardi in contanti, accumulati grazie al clamoroso surplus commerciale generato dal boom economico di Pechino. Cifre impressionanti come i 450 di Abu Dhabi, i 300 del Kuwait, i 360 di Singapore, i 140 del Qatar. Miliardi su miliardi, molti dei quali ancora da investire, cui mezzo mondo guarda per provare a risolvere i suoi problemi. I fan del boom dei fondi sovrani non hanno dubbi. Il loro futuro è roseo. E i provvedimenti presi dai singoli stati per evitare abusi sono più che sufficienti per evitare possibili malintesi più avanti. In fondo, dicono loro, La democrazia non è in vendita. In teoria è vero. Ma con l’Europa in balia della tempesta dei debiti nazionali - e con una politica comunitaria che pare incapace di agire per fermarla dietro l’angolo c’è un nuovo rischio. Il mondo ha cambiato pelle. La ricchezza accumulata sui giacimenti dei greggio ha spostato il baricentro del globo. Come in un sistema di vasi comunicanti, la ricchezza che una volta abbondava in Europa si è trasferita una goccia di petrolio alla volta verso est. E qualcuno alla fine potrebbe essere tentato di mandare a quel paese il sogno dell’Unione del Vecchio continente per aggrapparsi al salvagente dei fondi sovrani. Di sicuro più solido di quelli lanciati finora dalla Merkel e da Bruxelles.