Maria Pia Fusco, la Repubblica 15/7/2012, 15 luglio 2012
KEN LOACH
Ha compiuto 76 anni giusto un mese fa. Ma soprattutto ha festeggiato cinquant’anni di lavoro in cui ha reso protagonista la classe operaia e i diseredati, «gente che per i media in genere sono solo numeri, statistiche». Ken Loach si fa pensoso, poi subito aggiunge: «Proprio come il numero dei giovani senza lavoro: in Inghilterra alla fine dell’anno scorso per la prima volta ha superato il milione».
Li racconta nel suo ultimo film,
The Angel’s Share,
Gran Premio della giuria a Cannes, attraverso la storia di quattro piccoli delinquenti della periferia di Glasgow che, passati dal carcere ai lavori sociali, riescono, con metodi non troppo ortodossi, ad infiltrarsi nel business del whisky e si inventano un futuro. «Nel film si ride insieme ai protagonisti, per il loro linguaggio e le loro battute, e per il contrasto tra la loro rozza semplicità e il sofisticato ambiente dei fanatici appassionati di whisky. Ma con loro si piange anche: sono ragazzi cresciuti nella desolazione di una delle tante periferie urbane del mondo, deserti senza punti di aggregazione in cui è scomparso il senso della comunità, spesso figli di genitori
disoccupati, talvolta alcolizzati per disperazione. Ho scelto i toni della leggerezza solo per spirito di contraddizione, ci sono già troppi finali drammatici, sullo schermo e nella vita».
Genitori operai nel Warwickshire, a Nuneaton, dove è nato. Poi un’infanzia vissuta nella precarietà dei continui spostamenti tra famiglie di sfollati in fuga dalle bombe. «Non so se allora avvertivo la violenza e l’ingiustizia della guerra, non capivo perché gli adulti fossero sempre così seri e arrabbiati, speravo solo che non fosse colpa mia. Ma non ho memorie tristi, il mio ricordo più lontano è il dolore che provai a tre anni quando mi chiusi la mano in una sedia pieghevole», scherza. Ricorda invece la scelta, più tardi, di studiare legge a Oxford: «Volevo capire i meccanismi della giustizia per comprendere l’ingiustizia della disparità tra ricchi e poveri. Fu lì che, entrando a far parte della compagnia teatrale, scoprii anche quante cose si possano comunicare attraverso uno spettacolo».
Quando, giovane adulto, arrivarono gli anni Sessanta, lui cominciò a comunicare attraverso la tv. «In quegli anni il cinema in Gran Bretagna era quasi scomparso, soffocato dalle produzioni di Hollywood più che in altri paesi europei. Il nostro cinema era la fiction televisiva. Andava in onda dopo il telegiornale e quello che si cercava di fare era un tipo di prodotto che potesse richiamare, per stile, la realtà delle news. Portavamo la 16mm per la strada, volevamo raccontare storie di finzione che fossero il più autentiche possibile. In una delle serie più popolari che ho fatto,
Wednesday Plays,
i protagonisti erano gente comune alle prese con i problemi grandi e piccoli del quotidiano. Sicuramente quel tipo di tv, e poi le teorie del Free Cinema, hanno influenzato il mio modo di lavorare. Allora come oggi, per esempio, mi piace la ricerca di verità anche nella scelta degli attori: che siano professionisti oppure no, non hanno mai una sceneggiatura definita, consegno le battute uno-due giorni prima delle riprese perché non perdano la spontaneità. Se non le sentono proprie le cambiamo in corsa».
Ken Loach è uomo dai modi gentili, capelli argentati, scomposti, il sorriso segnato dall’ironia e da un’antica timidezza, un aspetto mite in netto contrasto con la durezza del suo cinema. Eppure
non sono poche le prove che ha dovuto affrontare. La più dura è stata la morte di Nicholas, vittima di un incidente stradale a sei anni, era uno dei cinque figli avuti dalla moglie Lesley. «È l’amore della mia vita, ci siamo conosciuti all’università, siamo sposati da cinquant’anni e ancora ridiamo insieme. Tra le sue qualità più belle c’è la pazienza e la forza di non crollare nei momenti più difficili». Come gli anni Settanta. «Erano usciti i miei primi film,
Poor Cow, Kes, Family Life,
storie di disagi famigliari, storie scomode, disastri al botteghino, tanto che per quasi dieci anni non sono riuscito a fare un film. Le cose cominciarono a cambiare un minimo con l’arrivo di
Channel Four,
che destinò fondi a piccoli film da trasmettere in tv». Ma ad arrivare fu anche la Thatcher. «E con lei la sua politica a favore delle aziende, il suo liberismo senza regole, le privatizzazioni selvagge, la distruzione dei sindacati.
L’immagine che ho di me stesso in quegli anni Ottanta è di un pover’uomo che si aggira in giacca e cravatta nei dintorni di Soho Square con una borsa in mano piena di soggetti alla disperata ricerca di finanziamenti. Nelle sale inglesi il mio cinema era tabù:
Wich Side Are You On?
e
Fatherlandsono
usciti soltanto all’estero».
Poi, finalmente, negli anni Novanta, la rinascita, i successi internazionali di film come
Riff-Raff, Ladybird Ladybird, My Name Is Joe, Terra e libertà.
Ormai per tutti è “Ken il Rosso”, “il più anti- British degli autori inglesi”. «Un’accusa, quest’ultima, che mi viene mossa da chi confonde il governo con il popolo. Io sono critico nei confronti del governo britannico, non ho nulla contro i miei concittadini. Sono uno di loro. Ho anche servito la patria, due anni nella Royal Navy», scherza, ma poi si indigna se ripensa «all’assurdità del paragone con Leni Riefenstahl a proposito di
Il vento che accarezza l’erba.
Secondo la stampa conservatrice era un film di contro gli inglesi, proprio come li faceva lei. Ma che c’entro io con una nazista?». Il film ha vinto la Palma d’oro a Cannes nel 2006. «Hanno scritto persino che sono uno che si diverte a fare su e giù sul tappeto rosso a Cannes. Non è vero, detesto vestirmi in smoking e cravattino, però quella sera ero felice, molto felice, e quel premio è stato di grande aiuto per il film».
Altro capitolo, quello con Hollywood. «Sono andato a Los Angeles a girare
Bread and Roses,
un film senza glamour, senza inseguimenti né sparatorie. È la storia della vita parallela delle donne e degli uomini che puliscono i palazzi e fanno i lavori più umili, immigrati, un mondo a parte. È stato il mio primo film americano, ma anche l’ultimo: nessuno mi vuole più da quelle parti».
Bread and Roses
è anche il terzo dei film scritti da Paul Laverty, amico di Loach e suo collaboratore fin dal 1996, anno di uscita de
La canzone di Carla.
«Ci unisce l’amore per il calcio, e poi siamo entrambi avvocati. Abbiamo le stesse idee politiche — anche se forse lui forse è più barricadiero di me — e la stessa voglia di prendere sul serio la realtà ma non noi stessi». C’è un luogo però in cui Ken Loach pare si prenda maledettamente sul serio. La cucina. A detta della moglie quando prepara i suoi piatti preferiti non vuole interferenze. Inoltre pretenderebbe applausi incondizionati,
e guai alle critiche. Lui ammette: «È una mia debolezza. Ma ne ho anche altre. Divento nervosissimo se non posso vedere una partita che mi interessa e se va male il Bath City, la mia piccola squadra del cuore. Ogni pomeriggio, poi, cedo all’irresistibile desiderio di un pezzo di cioccolata».
Dalla cucina si passa di nuovo a parlare di politica. «L’ottimismo è fuori luogo, rispetto agli anni Novanta è molto più difficile tenere accesa la speranza. Oggi è un atto rivoluzionario anche solo pretendere lavoro, sicurezza sociale, assistenza sanitaria, futuro. Non è più tempo di discorsi accademici, l’urgenza è immediata. Però è anche finito il tempo del silenzio e della rassegnazione. La classe operaia — e alla classe operaia appartengono anche i disoccupati — deve capire che è solo con la sua partecipazione che si combatte la crisi, perché non è certo dall’alto che arriverà la soluzione ». Guarda al suo passato, con nostalgia: «Sì, penso alla coesione sociale che c’era nell’immediato dopoguerra, al senso di appartenenza a una comunità che usciva dalla guerra e lottava forte della certezza che avrebbe avuto una vita migliore». Poi sospira e sorride: «Del resto, malgrado tutto, siamo ancora qui. E questo è un fatto».