Pietro Del Re, la Repubblica 15/7/2012, 15 luglio 2012
MASSUD DOPO LA BATTAGLIA
BAZARAK (Afghanistan) - Dopo decine di curve a gomito, quando la valle comincia ad aprirsi scoprendo in lontananza cime incappucciate da nevi eterne, lo vedi spuntare come un gigantesco obice, scolpito nella roccia grigiastra di queste montagne. Il mausoleo di Amad Shah Massud è imponente come quello di Chiang Kai-shek a Taipei, e brutto come quello di Kim Jong-il a Pyongyang. Ma nell’Afghanistan ancora funestato dalla guerra, la tomba di Massud, nella verdissima valle del Panshir, è anche l’unica tappa di un pellegrinaggio quasi turistico, perché agli occhi del suo popolo è lui il solo eroe positivo della storia moderna del Paese. Un eroe che per gli afgani sfiora ormai la leggenda, il mito. «Ci sono diversi motivi per venerarlo: perché era tagiko, perché anticomunista e per via della resistenza che come mujaheddin oppose ai sovietici, perché sunnita o ancora perché sconfisse i Taliban», racconta Faheen Dashty, scrittore nato in questa valle. Lavorò al fianco di Massud per diciassette anni, gli fu vicino anche negli ultimi istanti della vita,
quando, il 9 settembre 2001, due giorni prima dell’attacco alle Torri gemelle, due kamikaze travestiti da giornalisti fecero esplodere la telecamera carica di tritolo con la quale facevano finta di intervistarlo. «Ero dietro a uno di loro, a solo mezzo metro, ma l’esplosivo era diretto verso Massud, e così sono sopravvissuto», dice, mostrandoci le cicatrici delle ustioni che riportò sulle braccia.
Stamattina da Kandahar è arrivata in pullman una comitiva di pashtun per rendere omaggio al “Leone del Panshir”. I manifesti che lo ritraggono ridente o accigliato, contemplativo o perplesso, l’hanno seguita fin quassù dalla lontana provincia meridionale. Prima di inginocchiarsi per pregare davanti all’ampio sarcofago, gli uomini si tolgono i sandali, e sorprende vedere molti di questi barbuti commuoversi per un tagiko. Del resto, Hamid Karzai, anche lui pashtun, è diventato ai loro occhi il presidente dalla corruzione o un burattino nelle mani delle forze Nato.
Intanto, a pochi metri dalle spoglie di Massud, o meglio, del “capo”, come ancora lo chiamano i suoi, fervono i lavori nel cantiere di un mega-complesso a lui dedicato, che consisterà in due musei e che verrà ultimato entro la fine dell’anno. Spiega Dashty: «Il primo
conserverà i suoi oggetti, l’altro quello che riuscì a sottrarre ai sovietici, dai carri armati alle jeep, dalle contraeree agli elicotteri». Ma che cosa poteva collezionare un uomo che ha guerreggiato per buona parte della sua esistenza? Ebbene, Massud andava pazzo per le lampade tascabili, le radioline, le macchine fotografiche, gli orologi. Poi, siccome era anche un uomo di fede, aveva sempre con sé diversi rosari. Gli piacevano molto anche le auto, e collezionò anche queste, soprattutto grazie ai bottini di guerra. «Dio gli aveva dato tutto: forza, intelligenza, pietà», sostiene Dashty. Dio, o chi per lui, l’aveva reso anche molto fotogenico. Con il volto affilato, lo sguardo malinconico e il sorriso ridanciano questo Che Guevara afgano somigliava ad Anthony Quinn, o a Benicio del Toro.
Il nuovo complesso prevede anche due ristoranti, un giardino largo cento metri e lungo il doppio, un’area per le famiglie, una sala vip, una boutique per souvenir, una moschea e una sala multimediale. «Quest’ultima conterrà, tra le altre cose, i tanti volumi della sua biblioteca privata e i numerosi libri scritti su di lui, soprattutto da giornalisti francesi, tedeschi, americani », aggiunge Dashty. Perché il mujaheddin Massud era un militare colto, che prima di combattere in
montagna s’era iscritto alla facoltà di architettura di Kabul, che parlava oltre al farsi anche il francese, che aveva letto Dante e Victor Hugo.
Il progetto destinato a beatificarne la memoria è seguito da un architetto di Teheran, scelto perché nel mondo musulmano gli iraniani hanno fama di costruire i più bei minareti. I 3,5 milioni di dollari già spesi provengono dalle generose donazioni dei tagiki più ricchi, raccolte dalla Massud Foundation che è diretta del fratello del leader, Wali, e dall’ex ministro degli Esteri, Abdullah Abdullah.
È così stretta la valle del Panshir che quando i mig sovietici la sorvolavano per bombardarla, i tagiki dicevano che non si vedeva più il cielo. «Sette volte l’hanno conquistata i russi, e sette l’hanno perduta», racconta Dashty. Le cicatrici di quegli anni te le trovi davanti all’improvviso: sono borghetti ridotti in cumuli di pietre che nessuno ha mai ricostruito, o teorie di crateri scavati dalle bombe nella roccia dove oggi crescono solo grassi cespugli di bosso. Ovunque, nei pascoli, così come nel mezzo degli orti oggi nuovamente coltivati, campeggiano carri armati sovietici arrugginiti che, come vecchi alberi, sono diventati parte integrante del paesaggio. «Quando, dopo un pesante bombardamento ae-
reo, un convoglio di tank entrava nella valle, la strategia del “capo” consisteva nel colpire il primo e l’ultimo blindato, in modo da bloccare sia l’avanzata sia la fuga. Poi, nottetempo, sferrava attacchi ai mezzi intrappolati », ricorda lo scrittore.
La valle del Panshir, dove i Taliban non sono mai riusciti a penetrare, neanche durante i cinque anni in cui governarono l’Afghanistan (2006-2011), perché Massud ne ostruì l’ingresso facendo saltare grossi blocchi di pietra, è oggi il luogo più sicuro del Paese. In un futuro chissà quanto lontano le sue bellezze potrebbero nuovamente attrarre quei turisti europei o americani che negli anni Settanta l’avevano scelto, soprattutto gli hippy, come approdo asiatico. Oggi come allora, costeggiando l’impetuoso fiume Panshir, nei villaggi di case in pietra e fango ombreggiate da gelsi monumentali, aleggia una dolcissima armonia.
A poche decine di metri dal cantiere, sorge la casetta dove Massud lavorava, le cui finestre affacciano su un panorama frastagliato dalle vette di mille montagne. C’è la stanza del suo ufficio, con una vecchia scrivania, su cui sono poggiate una spillatrice e due palle di vetro con la neve; e c’è la stanza operativa, che una volta aveva le pa-
reti ricoperte di mappe, e che oggi è ingombra di pacchiane poltrone pachistane. Poco più in basso, una baracca fungeva da cucina: «Vogliono abbatterla, perché dicono che sfigurerà con la sontuosità del complesso», racconta Dashty. «Ma alcuni sostengono che si commetterebbe un danno storico, e si sono perciò opposti alla sua demolizione: la cucina sarà quindi solo nascosta da un muro che verrà innalzato ad hoc».
Molti si chiedono come si sarebbe comportato Massud nel 2001, quando le truppe americane sbarcarono in Afghanistan. Avrebbe avuto due scelte: accettare gli stranieri, perdendo però il consenso di molti dei suoi; oppure ritornare nella sua valle e combattere contro “l’invasore”. Secondo Dashty, il Leone del Panshir non avrebbe tollerato soldati stranieri sul suo suolo, e sarebbe forse stato costretto ad allearsi con gli insorti. «La stampa internazionale, sua alleata fin dai tempi della lotta contro l’Armata rossa, l’avrebbe abbandonato delegittimandolo», spiega. «Quanto a me, considero di aver avuto lo straordinario privilegio per aver trascorso con il “capo” le ultime ore della sua vita. Anche se spesso penso di essere stato davvero sfortunato ad averlo visto morire così».