Concita De Gregorio, la Repubblica 15/7/2012, 15 luglio 2012
DEL BOSQUE: VINCO TUTTO PERCHÉ SO ANCHE PERDERE
Più delle parole, per don Vicente, parlano i silenzi. La conversazione può durare ore, sul taccuino restano alcune frasi appena. In margine molte note, come fossero in terpretazioni possibili al testo di una traduzione.
L’esperienza di un dialogo con Vicente del Bosque somiglia ad una traduzione dallo spagnolo antico. I termini che usa, i metri di giudizio, i codici: sono quelli di un altro tempo, di un altro secolo. L’allenatore perfetto, l’uomo che col Real Madrid e poi con la Nazionale spagnola ha vinto più di chiunque altro in ogni tempo e in ogni luogo, è un sessantenne di donchisciottesca malinconia: non parla inglese, non veste italiano, non alza mai la voce, non esprime quasi mai giudizi se non è suo dovere farlo, dice di non conoscere il male. «Tutti veniamo al mondo per fare del bene», riflette lisciandosi i baffi a manubrio da almeno sessant’anni fuori corso. «Nessuno nasce senza altro scopo che dare l’esempio». L’intervista, resa faticosa al principio da circonvoluzioni verbali dense di rispetto, si rilassa quando ci si trasferisce nel desueto mondo del Bosque e se ne decifrano i segni.
Al passaggio su Guardiola e Mourinho, in particolare.
Lei sente Guardiola più affine al suo modello, immagino, rispetto a Mourinho.
«Non ci sono modelli, io non sono un modello. Ciascuno è un individuo che prova a fare del suo meglio».
Certo, ma forse sente una diversa sintonia con Guardiola, per quanto lui sia più giovane e catalano…
«Non è così tanto più giovane, forse dieci o quindici anni».
Non molto in effetti, nel conto dei secoli.
«Sì, e anche la regione d’origine non conta così tanto».
Beh, fra Castiglia e Catalogna c’è qualche differenza.
«Sì, ma poi sono gli uomini che contano. Non il luogo dove nascono ».
Dunque lei stima allo stesso modo i suoi due colleghi?
«Con Guardiola sono stato a pranzo almeno un paio di volte».
Cosa intende dire?
«Che non si va a pranzo con chiunque. Un pranzo è un pranzo».
Chiaro. Con Mourinho mai, se intendo bene. E con Prandelli?
«Sfortunatamente non ne ho avuto occasione. Ci avrei pranzato volentieri».
Stabilita l’unità di misura della condivisione del pane come metro della stima e della rispettabilità da qui si può ripartire. Don Vicente è cresciuto alla scuola di Santiago Bernabeu. «Un uomo buono, onesto. Un leader morale. Era modesto, non aveva soldi. Un esempio per tutti. Solo una volta mi riprese: non avevo salutato sua moglie
doña
Maria. Me lo ricordo ancora come uno schiaffo. È una questione di buona educazione, mi disse». La dottrina paternalista di un paese sotto dittatura, i valori del gioco scolpiti come i precetti di un ordine religioso: austerità, onestà, lavoro, umiltà.
La stessa vecchia macchina tutta la vita, tenuta con cura. Trentasei anni nella “casa bianca” del Real Madrid. Dal lunedì alla domenica in campo e a bordo campo, dalle dieci alle dieci. Il padre Firmin, un ferroviere “rosso” perseguitato dal regime, lo accompagnò al club solo la prima volta, lo consegnò ai dirigenti dicendo loro: «mi fido di voi». Non tornò. La madre a casa ad aspettare i figli a cena, ogni sera. Poi la giovinezza, un ruolo a centrocampo, il matrimonio, la morte del fratello amatissimo, la nascita di tre figli. L’infanzia di Alvaro, bambino down. La panchina del Real. La selezione per le giovanili. Una brevissima esperienza in Turchia, otto mesi, l’unica volta all’estero. La
Nazionale. Un Mondiale, un Europeo. Il titolo di marchese, conferito da Juan Carlos — quel giorno — a del Bosque e a Vargas Llosa. Un sorriso di modestia lo illumina quando cita il premio Nobel.
Ripartiamo dal campionato europeo, don Vicente. Lei ha detto, a proposito dell’ipotesi che la Spagna potesse pareggiare con la Croazia per eliminare l’Italia, che sarebbe stato impossibile.
«Impossibile, già».
Nel senso che non lo avrebbe consentito?
«Nel senso che è impensabile. Non si gioca per pregiudicare un terzo, si gioca in campo. Non può essere che così. Il
fútbol
è uno sport. Lo sport ha senso se è pulito. Il calcio è un gioco pulito».
Dovrebbe esserlo, intende dire.
«Per quello che mi consta lo è. Ho conosciuto tutta la vita solo questo modo di giocare. Capisco che il marketing, in generale il mercato possano portare elementi di turbativa. Ma non cambiano l’essenza del gioco. Non ho mai conosciuto
nessuno che abbia venduto una partita. Non l’ho mai visto accadere coi miei occhi. Questo non esclude che possa accadere, naturalmente».
Ha seguito un poco le vicende giudiziarie che coinvolgono il calcio italiano?
«Ho letto».
Non pensa che ci sia un elemento di corruzione, né che sia forse l’eccesso di denaro che circola nel suo mondo a determinarla?
«I giocatori, se sono pagati molto, lo sono in funzione della ricchezza che generano. Tv, pubblicità. Io non capisco perché si debba associare la ricchezza alla corruzione. Il denaro può e deve essere usato per fare il bene. Poi non escludo che ci sia chi non sa farlo, ma in generale nessuno nasce per fare il male. Tutti nasciamo con l’intenzione di far bene: nostro compito nella vita è dare il buon esempio».
Lei sembra il superstite di un mondo scomparso, di un universo di valori antichi…
«Non sono antichi. Sono valori universali. Sono senza tempo. L’essenza di quello che siamo non cambia con la velocità di trasmissione. Non è internet il problema. Non è chi specula sull’immagine. L’onestà è l’unica fonte di reddito di cui ciascuno dispone ».
Cruyff dice di lei: è un signore. Javier Marias, gran tifoso del Real, dice che è un galantuomo messo lì a far da specchio agli spagnoli, che purtroppo non le somigliano.
«Un grande scrittore può permettersi valutazioni universali. Io non credo però di essere diverso dalle persone con cui vivo, che incontro. Forse sono solo stato molto fortunato».
Una volta, a proposito di suo figlio Alvaro, ha detto che considerava giusto parlarne per essere d’aiuto alle famiglie come la sua.
«Parlarne e vivere, non c’è niente da nascondere. La vita è questa, condividere è fonte di sollievo per tutti».
Lei pensa che sia giusta la sovrapposizione che si fa durante le competizioni internazionali fra la squadra di un paese e il paese intero, come se le due identità coincidessero?
«Ma no, noi siamo sportivi, il calcio è un gioco. È meglio vincere ma va bene anche perdere, altrimenti ogni sconfitta sareb-
be un disonore per la bandiera».
Pensa che la vittoria della Nazionale possa dare sollievo e orgoglio a un paese in crisi?
«No, non credo. Il sollievo breve di una sera, l’orgoglio di una vittoria sportiva non possono nulla contro le condizioni reali di un popolo. E il nostro popolo attraversa un momento di crisi gravissima. Siamo diventati ricchi, da poveri che eravamo, troppo
in fretta».
Si è scritto che la Spagna, grazie allo sport, ha vinto il suo eterno complesso di inferiorità rispetto all’Italia.
«Negli anni ’50 e ’60 non era lo sport ad essere inferiore, era il paese. Oggi non mi pare che la vittoria sportiva ci conferisca, come popolo, alcuna superiorità rispetto al vostro paese, anzi».
Cosa pensa di Prandelli? Lo sente vicino come spirito?
«Penso che abbia fatto un ottimo lavoro con la squadra. Non lo conosco abbastanza per dire dello spirito. Però mi piace molto che parli alla vigilia delle partite con lo stesso tono con cui parla il giorno dopo, che vinca o che perda. Non si vince sempre del resto. È normale».
Lei vince molto, diciamo pure che ha vinto tutto. Qual è il segreto della sua squadra?
«Una buona relazione fra i giocatori».
Basta questo?
«No, certo. Ci vogliono buoni giocatori. I buoni giocatori si for-
mano negli anni, nei vivai, con pazienza. Poi bisogna che il gruppo funzioni. Che la collettività venga prima dei singoli. Come nella vita».
Si fa presto a dirlo, ma poi quando uno ha in campo un fuoriclasse di temperamento, poniamo un Ibrahimovic…
«È uguale. Bisogna spiegare ai singoli “eroi” che faranno meglio solo se il gruppo funziona. A volte che faranno meglio facendo meno. Senza un buon assist non c’è mai gol».
Tra gli italiani quali sono stati i giocatori che ha apprezzato di più?
«Non li conosco personalmente».
Certo, ma in campo? Pirlo?
«Una grandissima carriera sportiva. Massimo rispetto».
Balotelli?
«Credo che sia un
buen chico,
un bravo ragazzo. Qualche asprezza di carattere, forse. Non mi piace dare voti, smettiamo».
Non ne dà neppure ai suoi, in allenamento?
«Nessuno di loro sarebbe quello che è senza gli altri. Non posso nominarne neanche uno che valga da solo».
Lei fu cacciato da Florentino Pérez in malo modo. Oggi torna per restare, e si prende la rivincita più bella. Si sente ripagato?
«Io sono contento di tutto quello che mi è capitato, anche quando non pareva il meglio in quel momento, perché è stato
tutto ciò che è successo ad aver fatto di me e di noi quello che siamo: ad averci portati sin qui. Nessuna rivincita, nessuna vittoria nasce dal risentimento. Si può solo andare avanti».
La sua teoria della linea retta…
«Non conosco altro modo di procedere se non avanti diritto. L’unico posto in cui certamente stiamo andando è domani, e la via più breve — quella retta — è solita essere anche la migliore».
Se non avesse fatto il calciatore e poi l’allenatore che mestiere avrebbe voluto fare?
«Ho studiato magistero. Immagino che avrei fatto il professore. Sì. Sarei rimasto nella mia regione e avrei insegnato. Che poi in fondo è quello che ho fatto. Infatti sono molto contento così. Non credo che smetterò mai di lavorare, nel senso di provare ad essere un poco di esempio rispetto a ciò che ho imparato da chi c’era prima di me. E quando lavoro coi giovani, cioè quasi sempre, sono davvero ottimista sul nostro futuro. Torno a casa sereno».