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 2012  luglio 17 Martedì calendario

INGROIA, LA TOGA MILITANTE E PRESENZIALISTA

Antonio Ingroia, procuratore aggiunto di Palermo, titolare dell’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia che ha scatenato un corto circuito istituzionale, è un magistrato molto attivo e molto invitato. Ogni qual volta gli capita di salire sul palco di una iniziativa organizzata da un partito politico, la prima giustificazione è : «Mi hanno invitato». Sul palco del congresso dei Comunisti italiani di Oliviero Diliberto, nell’ottobre scorso, si è proclamato «partigiano della Costituzione». Ma nel suo carnet figurano partecipazioni a convegni dell’Italia dei valori, incursioni all’assemblea nazionale della fu Sinistra democratica (per quei pochi che ricordano cos’era) ed escursioni presso Futuro e libertà («Ingroia testimonial della legalità per Fli», titolò un entusiasta Secolo d’Italia ancora in orbita finiana), fino al recentissimo video-intervento dal blog di Beppe Grillo per denunciare «l’irresponsabilità degli italiani». Alle sue esternazioni puntuali seguono furiose polemiche, alle quali Ingroia replica con una seconda giustificazione fissa: «Ho diritto di esprimermi come cittadino». Quando la polemica avvampa di più, come nel caso della «partigianeria» costituzionale, Ingroia taglia corto: «Era una provocazione, ha avuto successo».
Palermitano, classe 1959, cresciuto nel pool Falcone-Borsellino e poi pm di punta della procura di Palermo guidata da Gian Carlo Caselli all’inizio degli anni Novanta, Ingroia respinge con sdegno l’etichetta di magistrato politicizzato, così come quella di aver gestito in chiave antiberlusconiana il processo Dell’Utri, di cui è stato pm, e la collaborazione con la giustizia di alcuni pentiti eccellenti o simili, tra i quali Massimo Ciancimino, figlio del don Vito ex sindaco mafioso di Palermo. Ciancimino junior, ritenuto inattendibile dai colleghi della procura di Caltanissetta, è poi incappato in una lunga serie di traversie giudiziarie che hanno minato al tempo stesso la sua credibilità di testimone e il lusinghiero giudizio che Ingroia aveva speso per lui nel suo recente libro di memorie: «Dal primo incontro ho capito che Ciancimino Jr. era fatto di un’altra pasta rispetto al padre».
Nemico giurato di ogni bozza di riforma dell’ordinamento giudiziario, accanito denunciatore di qualsiasi ipotesi di regolare l’uso delle intercettazioni (appunto...), Ingroia è un dichiaratore indefesso anche quando non sono i partiti ad accendere la sua miccia oratoria. Si è appena pronunciato a favore della legalizzazione delle droghe leggere, confessando pure qualche «tiro» giovanile, e tempo prima, intervistato dal Fatto quotidiano, aveva voluto innescare un dibattito tutto cinefilo: «Il cinema non sa più raccontare la mafia». Proprio la partecipazione, insieme al collega Scarpinato, al battesimo del quotidiano di Antonio Padellaro e Marco Travaglio (fraterno amico e, notoriamente, compagno di vacanze) costò al magistrato altre critiche di militanza e parzialità. Stavolta rintuzzate così: «Siccome è un giornale nuovo, sono andato per capire qual era la linea. Fosse stato un giornale già in edicola, non ne avrei avuto bisogno».
Ingroia tiene molto a ricordare di essere anche giornalista pubblicista. Insomma, non gli piace solo apparire (è spesso ospite in tv di Michele Santoro), ma anche scrivere. Già collaboratore dell’Unità, quando ancora governava il centrodestra si esibì su Micromega in un memorabile scatto teorico sull’opportunità di «sospendere autoritativamente la democrazia aritmetica alfine di salvaguardare la democrazia sostanziale, cioè il bene comune della generalità dei cittadini contro la stessa volontà della maggioranza». Insomma, Asor Rosa voleva mandare i carabinieri ad arrestare Berlusconi, Ingroia li avrebbe mandati volentieri da quelli che l’avevano votato. E’ anche editorialista di un periodico siciliano anti-mafia, «S», che quando Riina è uscito assolto dal processo De Mauro (in cui Ingroia era pubblica accusa) ha titolato così: «Riina assolto, ma la Palermo degli anni Settanta no». Un titolo molto ingroiano. Come l’idea, esplicitamente teorizzata nel caso delle indagini sulla trattativa Stato-mafia, che un’inchiesta possa essere finalizzata a ricostruire una verità politica prima ancora che una responsabilità penale. Come l’idea che compito della giustizia sia, anziché punire i reati, processare una città, un contesto e, perché no, pure la Storia.