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 2012  luglio 15 Domenica calendario

DEVOTO AL DIO MILAN DAL FATAL BENTEGODI

Un giorno si sono aperte le nuvole ed è uscito un signore sui 40 anni, un bell’uomo con la barba. Ha chiamato Rivera e gli ha detto “Gianni vai per il mondo e insegna il gioco del calcio”. Il mio milanismo è una religione. Una vocazione che parte da lontano, come nascere bello o brutto, il perché non lo sai mai”. Diego Abatantuono supera l’estate dell’astinenza pallonara con fiducia. “Ho sistemato l’ufficio in piscina, il computer sotto l’ombrellone. Prima ho dimenticato il telefono al sole per 30 secondi e rispondendo a un amico che mi chiedeva nuove su Ibrahimovic è avvenuta la fusione. Una fonduta. Per uno che sogna la sintesi tra le virtù culinarie di Tognazzi e lo sport interpretato da Vianello, sono a buon punto”. Cicale, Romagna, Riccione immobile all’orizzonte. Un muro di tedeschi in marcia verso le granite. “Soffrire è troppo. Il campionato è finito, ma presto ricominceranno le amichevoli. Allora guardi, il 21 c’è il trofeo Birra Moretti a Bari, poi le amichevoli, la Coppa Italia”. Nel tabellone di Diego non si saltano turni: “È come stare a dieta per un weekend. Ancora un mese e ricominciamo”.
Prima folgorazione?
Il mio diciottesimo compleanno durante la fatal Verona al Bentegodi. Io con gli amici a camminare in stato di choc per la città in terra straniera e il Milan che perde lo scudetto all’ultima giornata. La Juve vinse a Roma, anzi la Roma si lasciò battere.
Iniziazioni?
Ognuno ha avuto le proprie. I bambini a scuola, con il grembiule nero e il fiocco azzurro incontrano i traumi in tenera età. Io invece trovai il portafogli di mio nonno sul pavimento e mi salvai. C’erano due foto. Rivera e Padre Pio. “Chi sono?” chiesi. E lui paziente “Il primo è un uomo che fa miracoli e l’altro un popolare frate pugliese”.
Rivera viveva al settimo piano del suo condominio.
Io abitavo al secondo, ma in ascensore fingevo sempre di non riconoscerlo. Una forma di timidezza, di pudore. A volte salivamo insieme e in preda al lapsus, premevo “7”. Poi guardavo per terra e lo scortavo osservandomi i piedi.
Tramontato Berlusconi ci vorrebbe lo sceicco.
Era arrivato anche il principe degli “evirati arabi”, Abat Al Bar. Ricchissimo. Più volte evocato. Una sola moglie, 346 guardie del corpo. Ma avrebbe comprato solo se ci fosse stato qualcosa da acquistare. Al Milan invece non c’è niente, neanche lo stadio. Così è ripartito. Mi dicono che non tornerà.
Estate di cessioni.
Piango per Thiago Silva, uno che non avrebbe sfigurato nel Milan morale dei vari Evani, Costacurta e Tassotti, ma non verso una lacrima per Ibrahimovic. Fosse stato per me, sarebbe andato via da tempo. Prima di fare gol, inscena almeno 5 comportamenti che non me lo fanno stare simpatico. Affitta isole per cacciare alci, è arrogante, provoca. Uno che manda costantemente la gente a fare in culo non può rappresentare per i giovani un valore. Pensiamo a Van Basten, a Baresi, ad Ancelotti io e i miei figli siamo cresciuti con quella gente lì.
Gente che va, gente che viene.
Li ho visti tutti. Albertosi e Rosato, Schnellinger e Joe Jordan, lo squalo, refrattario ai dentisti di talento. Poi Hateley, Calloni e Luther Blisset.
Calloni. Lo sciagurato Egidio.
Posseduto da quella che all’epoca, ingenuamente, avremmo incasellato come sfiga e che poi scoprimmo essere interismo. Non segnava neanche a porta vuota, ma era dell’altra squadra, l’Egidio. Tifava per quelli che non si possono neanche nominare. Ora vende formaggi sul Lago di Garda. Ha il camioncino obeso di sciarpe e bandiere nerazzurre . In ritardo, ma abbiamo capito tutto.
E Luther Blisset?
Nessuno l’aveva mai visto in faccia così con abile espediente, l’ex cameriere di Elton John poté sbarcare nottetempo a Milano da una cella frigorifera. Elton, affranto dalle turbe sentimentali non si riprese e Giussy Farina festeggiò. Da presidente del Milan, per fare cassa e strappare Blisset dalle amorevoli cure di Elton John, oltre all’abbonamento si inventò una tassa suppletiva. L’occupazione di suolo pubblico dei 30 centimetri del tuo posto a San Siro. Una specie di tassa sull’immondizia, in linea con la sua gestione.
Lei pagò.
Come sempre. Detesto essere ospite, mi passa la voglia. La domenica specialmente, quelli che faticano a essere durante la settimana, ostentano il loro poterino sugli spalti, il loro pass gratuito, il loro parcheggio offerto dalla maschera amica. Preferisco distinguermi.
Il calcio per lei?
Malattia. Delirio. Estasi e tormento. L’ho giocato fin da bambino, nei campi intorno a casa, al Giambellino. Passione nutrita fin troppo, visti i risultati fisici.
Esempi?
Durante ne Il continente nero di Marco Risi, in Africa, avevo chiesto che mi mandassero le copie della Gazzetta, i vhs di Controcampo e della Domenica sportiva e le registrazioni dell’A boccaperta di Funari. Taccio poi sulle tante postazioni radio improvvisate per ascoltare Il calcio minuto per minuto.
Frammenti di discorso amoroso?
Giravamo Marrakesh Express, netta predominanza di interisti con Bentivoglio, Vivarelli, Cederna e Salvatores. Piccolo spicchio di Milan a rispondere, io e Ugo Conti. A Marrakesh, sull’unico canale disponibile, trasmettono Bayern Monaco-Inter.
Coppa Uefa?
Certo, il massimo picco di gloria di quelli lì. Nel caldo, senza ragione, l’Inter vince in Germania per 2-0. Nicola Berti, poi detto Orietta, sembra Abebe Bikila. Fa 70 metri palla al piede e segna. L’allegra truppa guidata da Salvatores, sobriamente, ci massacra.
E al ritorno?
Quindici giorni più tardi, nell’ultimo angolo di deserto prima dell’apocalisse, ci accingiamo a terminare le riprese. I cugini trottano a San Siro, ma trovare una tv circondati dalla polvere sembra impossibile. Invece in una casa di terra, con il fili elettrici miracolosamente attaccati tra loro , troviamo Inter-Bayern. Vincono i tedeschi 3-1. Passano il turno. Io e Conti, nel nulla dell’avamposto più estremo insceniamo un carosello. Cosa non avrei fatto per il Milan. Cosa non farei ancora.
Anche un film.
Più d’uno. Di Eccezziunale c’è solo che non mi sono stancato. Non ho più l’età per andare in camper a Barcellona e girare per le ramblas con Sacchi a bordo di un coche, suonando il clacson come un pazzo a poche ore dal trionfo in Coppa dei Campioni. Né il fisico per palleggiare con Gullit a Milanello.
Accadde?
Sacchi disse: “Per tutti a un tocco, Diego la può toccare quante volte vuole”. Pensava di darmi un vantaggio. Io non facevo in tempo a pensare che me l’avevano già portata via. A un certo punto li ho fermati. “Ripristiniamo le regole, anche io ho un tocco, così almeno una volta la prendo”.
E come è finita?
A parità di condizioni, ho dimostrato a tutti che si trattava di una casualità.
Cosa?
Che Diego Abatantuono, attore per caso, devoto al dio Milan, non avesse giocato in Serie A.