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 2012  luglio 14 Sabato calendario

PERCHÉ NON SIAMO UN PAESE «JUNK»

Perché il downgrade di Moody’s ha lasciato quasi indifferenti investitori e analisti internazionali? Perché l’asta BTp di ieri ha visto scendere i rendimenti malgrado il doppio taglio di voto operato sul nostro debito? E perché, infine, anche i credit default swap sull’Italia, cioè le polizze anti-insolvenza sul nostro debito sovrano, sono scesi di prezzo invece di salire? E infine: perché Moody’s ha annunciato il declassamento dell’Italia con i mercati asiatici aperti (lasciando per fortuna anche loro indifferenti) e quindi poche ore prima dell’apertura dei mercati europei e soprattutto poco prima di un’importante asta di titoli di Stato italiani? Non sarebbe stato forse più onesto e corretto da parte di Moody’s aspettare la chiusura dei mercati europei per il week-end, come si fa di solito in questi casi? Ieri erano queste le domande-chiave della giornata, e malgrado l’abbondanza delle risposte ce n’è una che colpisce più delle altre, forse perché scritta non da un analista di una banca italiana, ma di una delle più grandi banche francesi: «Per uscire dalla crisi – scrive l’analista nel suo report – c’è bisogno di bussole affidabili che diano conto in maniera adeguata dei maggiori o minori progressi che ciascuno compie nel cammino europeo verso la sostenibilità». Lo spread e i rating, dunque, sono una bussola imperfetta, che per ammissione del mercato stesso va saputa leggere guardandoci dentro e andando oltre. «Il divario persistente tra BTp e Bund – è scritto ancora nel report della banca francese – non dà conto di molti progressi compiuti da Paesi come l’Italia». «Visto dall’altra parte, lo spread certifica l’esistenza di un non piccolo sussidio europeo al rientro dell’eccesso di debito pubblico che pure esiste in Germania. Sta al mercato, ai "policy makers" e al dibattito mediatico superare gli allarmismi per comprendere e spiegare la complessità». Ecco, più della tenuta dei BTp in asta o del rialzo delle Borse, ciò che colpisce delle reazioni dei mercati finanziari al downgrade dell’Italia è proprio il cambio di prospettiva finalmente in atto nei confronti delle agenzie di rating e della dittatura degli spread. Le tre domande iniziali, dunque, hanno trovato una prima risposta: i mercati, in una crisi complessa come quella in corso, hanno cominciato a trattare i rating per quello che sono, cioè la fotografia di un arcobaleno in bianco e nero. Dopo quattro anni di crisi economica e finanziaria, di rischi di disgregazione dell’euro e dell’Europa, di governi che si avvicendano con una velocità mai vista prima d’ora e soprattutto dopo lo sforzo imponente messo in atto dalla leadership europea per evitare che la crisi greca si trasformi nell’apocalisse dell’Europa, non solo il mondo è cambiato, ma è cambiata soprattutto la sudditanza del mercato nei confronti dei vecchi indicatori. Certo, agenzie di rating e spread hanno sempre un valore per i mercati, ma finalmente questo appare inserito all’interno di un contesto più realistico e meno profetico: come dimostra l’asta BTp di ieri e prima di questa l’asta BoT di alcuni giorni fa, tanto lo spread quanto il rating non sembrano più in grado di esaurire in sé la portata delle analisi sullo stato di salute e sulle prospettive intorno all’economia italiana. «Sarebbe come se per giudicare la salute di una persona – scrive ancora l’analista della banca francese – noi guardassimo solo al livello del colesterolo nel suo sangue. Sopra duecento, o qualcosa in più, allarme. Sì, è così. Ma bisogna anche andare oltre, nelle analisi e nella cura». Non è, infatti, solo il rating o il solo spread BTp-Bund a determinare la sostenibilità del debito pubblico, ovvero la possibilità di avviare in un prossimo futuro quelle riduzioni del rapporto tra debito pubblico e Pil che ci chiedevano già le regole di Maastricht e che oggi, con ben maggiore cogenza, impongono le nuove metriche dell’Euro plus e del Fiscal Compact. Il fondamento economico-finanziario di questa attenzione è solido. Misurare lo spread è un modo per ricordarci il vincolo impostoci dall’essere titolari di un debito pubblico che è tra i più elevati del mondo. Un debito i cui interessi ammonteranno quest’anno a circa 85 miliardi di euro, pari oltre cinque punti percentuali del prodotto interno lordo. Ma questa è la foto in bianco e nero del nostro arcobaleno. I colori che mancano, e che Moody’s sembra volutamente non vedere, sono tanti e soprattutto sarebbero sufficienti da soli a far crescere la fiducia su ciò che sta facendo l’Italia, non a farla diminuire come sembrano desiderare le agenzie di rating. Eccone alcuni. Moody’s sostiene che i conti pubblici si sono deteriorati, ma secondo i dati forniti dal ministero dell’Economia, quindi gli stessi che dovrebbe usare l’agenzia americana, nel primo semestre del 2012 il fabbisogno dello Stato è sceso a 29,1 miliardi dai 43,9 miliardi dello stesso periodo del 2011. A giugno, l’avanzo primario è stato di 5,8 miliardi di euro, contro l’asfittico miliardo contabilizzato nel giugno del 2011: su questa base, gli analisti ritengono che il Governo non menta quando afferma di aspettarsi a fine anno un avanzo primario pari al 4,9% del Pil contro il 3,6% segnato nel 2012. E ancora: secondo le stime dei più accreditati centri di ricerca economica (a cominciare da quello di Banca Intesa Sanpaolo), proprio questi risultati faticosamente centrati dal Governo tecnico dovrebbero permetterci di raggiungere l’anno prossimo un fabbisogno da finanziare di circa 17 miliardi di euro contro i 32 di quest’anno. Infine, l’aspetto più importante ai fini del contenimento del debito pubblico, che oggettivamente resta ancora troppo elevato: sulla base dei dati attuali e delle proiezioni a fine anno, gli economisti (non del Governo) ritengono che l’Italia potrà emettere nel 2013 debito per 415 miliardi, 40 in meno sui 454 miliardi previsti per quest’anno. In pratica, sulla base delle stime attuali (già corrette per la recessione), l’Italia tornerà a finanziarsi sui mercati l’anno prossimo sui livelli del 2003-2007, cioè sui livelli pre-crisi. Ebbene: queste proiezioni sono entrate nei calcoli di Moody’s? Oppure conta solo il passato? I mercati, ieri, hanno dimostrato invece di tenerne conto. Ed ecco così la risposta all’ultima domanda, quella sul timing del declassamento: se fosse stato comunicato di venerdì notte, probabilmente, non se ne sarebbe accorto nessuno.