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 2012  luglio 15 Domenica calendario

L’IRRESISTIBILE FASCINO DI 007

Quando nasce – un mattino di gennaio del 1952 a Goldeneye, la villa in Giamaica dove Fleming trascorre, dal 1946, i primi due mesi dell’anno – James Bond ha un aspetto e un comportamento molto diversi da quelli che gli conosciamo oggi. Nel primo romanzo di cui è protagonista, Casino Royale, 007 gioca un’interminabile partita a baccarat, subisce un’interminabile tortura, e si concede un weekend con Vesper Lynd terminato molto prima di quanto fosse nei suoi piani: il tutto senza tirare un pugno né sparare un colpo di pistola, e, soprattutto, senza regalare a chi legge una sola delle sue celebri (al cinema) battute; del resto parla pochissimo, anche se alcune delle rare frasi che gli si possono attribuire riguardano, copione obbliga, la corretta preparazione del suo notorio Martini.
Come sull’eroe volutamente anonimo di un romanzo volutamente prosciugato oltre i limiti di qualsiasi genere – che non siano i referti clinici – si sia fondata la fantasmagoria multimediale che tutti quanti abbiamo sotto gli occhi prova a spiegarlo Designing 007, l’imponente mostra che il Barbican di Londra ha organizzato per festeggiare il cinquantenario del primo film di Bond, Dr. No (da noi, Licenza di uccidere). Che a sua volta, per chi non lo sapesse, era un film scarno, e quasi a basso costo. I produttori sapevano il fatto loro – soprattutto "Cubby" Broccoli, che era stato a bottega da Irving Thalberg negli anni Trenta –, cioè sapevano cosa tagliare, quando serviva. I costumi, ad esempio, e la prima sorpresa di una mostra dedicata in buona parte allo stile Bond è apprendere che, protagonista a parte – Connery portava un completo dello stesso sarto che vestiva il regista, Terence Young, e Ian Fleming –, quasi tutti gli attori del primo 007 si erano portati gli abiti da casa, a cominciare da Lois Maxwell, Miss Moneypenny, per finire con Ursula Andress, che emerge dalle acque in un completo intimo di sua proprietà appena ritoccato, e giustamente ritenuto, dalla produzione, espressivo quanto basta.
Gli inizi di Bond sono dunque stati, anche al cinema, sotto il segno di un’ammirevole economia di mezzi, che com’è ovvio la mostra del Barbican fa il possibile per celare. Si entra passando di fianco a un manichino di 007 in smoking davanti all’inevitabile Aston Martin, ma lo si guarda di sfuggita, perché sulla testa del finto Sean Connery passano le immagini del meglio di Bond al cinema, e cioè le sequenze d’apertura di tutti i film, dal prototipo optical di Licenza di uccidere, appunto, alla sinuosa fusione di corpi e caratteri che un genio incomprensibilmente dimenticato della tipografia psichedelica come Robert Brownjohn aveva escogitato per Dalla Russia con amore e, soprattutto, Missione Goldfinger.
Già, Goldfinger. Volendo cercare una parola – e un colore – chiave per accedere al mondo di 007, non c’è bisogno di andare lontani. Appena entrati nella mostra vera e propria, si viene accolti da una riproduzione a grandezza naturale del letto su cui trova la morte, cosparsa di vernice d’oro, Jill Masterson (e di Jill Masterson stessa, ovvio). Da lì in avanti, lo spettatore è libero di concentrarsi sul feticcio preferito. Quasi tutti si avventano sulle diavolerie di Q, come ricorderete interpretato da Desmond Llewelyn, un meraviglioso caratterista già anziano agli inizi della serie, ma che avrebbe spinto la propria fedeltà al ruolo fino alle soglie della decrepitezza. Chi tende però a stufarsi di valigette armate, Hasselblad in grado di sparare, mongolfiere, deltaplani, macchine anfibie, e così via si può tranquillamente dedicare alla vera attrazione della mostra, che non sono gli innumerevoli abiti di scena – sempre un po’ più piccoli e sbiaditi e fuori moda di come si tende a immaginarli –, ma gli strepitosi bozzetti, gli storyboard e i cartoni preparatori di Sir Ken Adam. Andate su Wikipedia e scoprirete che questo ex asso degli Spitfire, un caratterino capace di dire no a Kubrick che lo voleva per 2001 (fallo coi tuoi amichetti della Nasa, era stata più o meno stata la risposta di Adam), ha firmato sette film di Bond, da Licenza di uccidere a Moonraker. Quello che Wikipedia non vi dice, e che si capisce solo guardando i disegni, è fino a che punto l’immagine hi-tech e futuristica di Bond sia stata forgiata dalle intuizioni di Adam, che per fortuna sono sparse ovunque, e leniscono la sazietà che rischia di cogliere chiunque, quando i manichini in tuxedo passano in doppia cifra.
L’ultima sala, nascosta nelle profondità del Barbican, è tutta bianca, e interamente dedicata alle sequenze più spettacolari e costose dell’intera serie, quelle sulla neve. Se la sola scena che precede i titoli della Spia che mi amava era costata, nel 1977, 500mila dollari, rivedendo l’inseguimento sul pack di La morte può attendere il registratorino di cassa che ciascuno di noi, volente o no, si porta nella testa cessa di funzionare. Eppure si ha la sensazione che neanche un’attenta analisi di preventivi e borderò, che al cinema di solito dice moltissimo, aiuterebbe a capire meglio un personaggio di cui anche qui non apprendiamo molto, oltre il nome e il numero di matricola. Per saperne di più – come chiunque legga Bond è fatalmente tentato di fare – non resta che tornare a Fleming, e ad esempio allo scambio di lettere, visibili in mostra, con cui discute insieme all’art director del suo editore, Michael Howard, e al suo illustratore di fiducia, Richard Chopping, i dettagli della copertina di Goldfinger. L’accuratezza e la semplicità con cui Fleming racconta il suo personaggio dicono parecchio sul senso della saga, ma per capire come la ricetta della medesima sia molto più essenziale di quanto si sia nel tempo fantasticato basta rivolgersi all’empirismo elvetico di Ursula Andress – ancora lei – richiesta di un’opinione sui costumi indossati in Licenza di uccidere: «Costumi? Non avevo costumi. Avevo un bikini, una camicia alla coreana, e un paio di pantaloni che però ho perso in una scena di inseguimento».