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 2012  luglio 15 Domenica calendario

L’ATLETICA IN ACCADEMIA

Avete mai immaginato un mondo senza sport? Che razza di mondo sarebbe? Quale grado di monotonia e routine presenterebbe? Minore o maggiore rispetto al mondo in cui abitiamo ora? Potremmo trovare conforto nella psicologia, nonché nelle neuroscienze al fine di rispondere, di comprendere il nostro atteggiamento nei confronti dello sport, di questo e di quello sport, per la precisione – non tutti amano il medesimo sport, anzi, né tutti ne praticano qualcuno. E ancora alla psicologia e alle neuroscienze ricorriamo, oltre che allo scopo di indagare la mente degli atleti, per far sì che, attraverso la "cura" della loro mente, migliorino le loro prestazioni fisiche. Ecco emergere il problema mente/corpo, problema squisitamente filosofico.
La filosofia dello sport è materia di tutto rispetto, specie all’estero, con le sue diverse società, l’International Association for the Philosophy of Sport, un’egregia rivista specialistica: il Journal of the Philosophy of Sport, pubblicato da Routledge. Un connubio poco stravagante questo, tra filosofia e sport, se non fosse altro perché il nome "accademia" (considerate quella di Platone) risale a un bosco dedicato ad Academo, bosco ove sorgeva un ginnasio, luogo deputato in origine all’allenamento atletico, e, al contempo, luogo d’educazione dove si tenevano lezioni e conferenze. In altre parole, il mens sana in corpore sano del Giovenale delle Satire: dovremmo mirare alla salute della mente e a quella del corpo, beni imprescindibili per ogni essere umano, al cui confronto altri, quali fama e celebrità, risultano vani. Ma lo sport odierno tradisce Giovenale in più di un senso: basti valutare i dubbi sulla sanità della mente e del corpo di alcuni atleti, nonché quanta fama viene agognata nella pratica agonistica.
Non è questa l’unica ragione per cui lo sport abbisogna di filosofia. Quando ci chiediamo se campioni si nasce o si diventa, stiamo sondando un tema che affonda le proprie radici nell’antico dibattito "natura/cultura", dibattito ancora una volta presente nel caso in cui subentri il discorso "razza" a partire dalla domanda popolare «qual è il colore della pelle dei migliori sprinter?», ovvero sono i migliori a causa della loro specifica cornice bio-evolutiva, oppure a causa della cultura assorbita ed elaborata? Forse, i corpi di quegli sprinter risultano macchine costruite per vincere; e dovremmo così rammentarci del materialismo, sviluppato da Julien Offray de La Mettrie in L’uomo macchina, di come il corpo venga scolpito, fabbricato ad hoc, fino a condividere qualcosa col cyborg. Da qui i problemi si diramano: si dà il problema metafisico della nostra identità (naturale o cyborg), il problema estetico riguardo la bellezza, il problema etico: fino a che punto è bene costruire il proprio corpo e con quali mezzi (allenamento, alimentazione, sostanze e metodi dopanti, artefatti)? A quest’ultimo proposito, il caso di Oscar Pistorius ha sollevato non pochi dilemmi, e altri ne solleva oggi, dopo la decisione del Comitato Olimpico sudafricano che consente a Pistorius di gareggiare alle Olimpiadi londinesi, non solo alle Paralimpiadi. Ne dovrebbe seguire, tra l’altro, una corrispondente destrutturazione della differenza concettuale tra "normodotato" e "diversamente abile", a questi ultimi termini andrebbero applicate corrette analisi semantiche e pragmatiche, il grado di tecnologia utilizzabile (dalle gambe alle scarpette ai costumi da nuoto agonistico, e via di seguito) reclamerebbe di venire scrutinato dalla filosofia della scienza.
Aprendo allo sport le grandi porte della filosofia della conoscenza, difficile poi stabilire fino a che punto occorra richiedere agli atleti di possedere conoscenza diretta, proposizionale, competenziale della propria pratica sportiva, fino a che punto risulti ammissibile che ne infrangano i principi, se, al riguardo, la nostra preferenza vada accordata a un’ottica contestualistica, stando a cui i nostri giudizi variano da contesto a contesto – una cosa sono i contesti dilettantistici, altra quelli agonistici. Conoscenza che si declina in conoscenza estetica nel confrontarsi con la ricerca della perfezione fisica, nonché in conoscenza artistica al cospetto delle rappresentazioni scultoree, pittoriche, fotografiche, filmiche dello sport. Tra le tante, ne menziono una: il film Atletu sugli ultimi anni della vita di Abbebe Bichila. L’etiope corre senza scarpe. Perché non correre sempre senza scarpe? Perché non tornare a una pura bella antica nudità? Obiezione: gli sponsor dove e come comparirebbero?; e le stravaganze nel "dress" degli atleti? Risposta: grazie a eleganti scritte calligrafiche sul corpo, non a banali tatuaggi!
Abbebe Bichila vince la medaglia d’oro nella maratona delle Olimpiadi di Roma nel 1960, si trasforma nel simbolo di un’Africa affrancata dal colonialismo. Qui, come in altri casi (proteste, massacri – quello di Monaco – rivendicazioni etniche, "diplomazie", fu Franklin Roosevelt, non Adolf Hitler, a negare al pluriolimpionico Jesse Owens ogni meritato riconoscimento) lo sport impone specifiche letture da parte della filosofia politica. Tornando al film, invece, non è chiaro se esso voglia stabilire una sorta di contrasto tra l’Abbebe Bichila eroe (vince la maratona anche alle Olimpiadi di Tokyo del 1964) e l’Abbebe Bichila paralizzato, che continua a praticare sport (slitta, ping pong, tiro con l’arco) e partecipa alle Paralimpiadi di Heidelberg del 1972. Si riaffaccia comunque non solo il problema del normodotato e del differente abile, ma si presenta pure quello della capacità di un film di trasmetterci una conoscenza dello sport e dello sportivo. Conoscenza manipolata? Se si dà tale conoscenza, ovvero se la conoscenza manipolata ci garantisce un qualche sguardo epistemico, il fulcro della questione riguarda oggi soprattutto i media: quanto e come intervengono (o dovrebbero) in ciò che vorreste davvero conoscere, e quanto e cosa vi restituiscono (o dovrebbero), manipolando al contempo lo sport medesimo? In questo caso, per rispondere, la filosofia della conoscenza richiede il contributo della filosofia della comunicazione.
Last but not least. Lo sport assume acriticamente l’esistenza della differenza sessuale, cosicché i maschi competono con i maschi, le femmine con le femmine. Eppure, sappiamo bene quanto questa differenza risulti discutibile filosoficamente, nonché biologicamente. Nello sport non si tratta solo della partecipazione dei transessuali (su cui i media ci forniscono spesso troppe inutili chiacchiere, come si trattasse di un tema pruriginoso), ma innanzitutto di come analizzare l’appartenenza sessuale, la violazione della privacy, il confine tra pubblico e privato, le corporature e psiche "maschili" che si avvicinano a quelle "femminili", e viceversa. È una questione metafisica dare per scontate categorie (maschio e femmina) e determinare, con esse, un netto spartiacque tra gli esseri umani, sportivi inclusi. E a ciò si aggiunga il pregiudizio, stando a cui, ancor oggi, alcuni sport vengono giudicati maschili, mentre altri femminili. In gioco c’è la nostra identità personale e sociale, oltre che sessuale. Cosa è giusto, cosa è sbagliato? Ecco comparire di nuovo domande etiche, che riguardano, tra l’altro, la moralità delle stesse regole sportive: perché alcune di esse sono giuste, mentre altre sbagliate? Pensateci su quando guarderete le Olimpiadi e Paralimpiadi londinesi. Un consiglio spassionato: guardate con filosofia le prime tanto quanto le seconde, senza alcun smarrito pietismo.