Il Sole 24 Ore 15/7/2012, 15 luglio 2012
FERMOPOSTA
In questa rubrica ospitiamo ogni settimana la lettera di un lettore a un collaboratore della «Domenica». Le lettere, della lunghezza massima di 40 righe per 60 battute, vanno inviate a «Il Sole 24 Ore Domenica», via Monte Rosa 91, 20149 Milano, oppure a fermoposta@ilsole24ore.com
Gentile professor Rovelli, sono lieto del suo commento alla scoperta del presunto bosone di Higgs apparso su «Domenica» dell’8 luglio. Ma siamo proprio sicuri che si tratti di quell’elemento che Peter Higgs aveva prefigurato? È pur vero che la scoperta aggiunge l’elemento che mancava al Modello Standard, ma anche questo Modello costituisce una fra alcune altre teorie che ancora non spiegano nulla.
Costanzo Ajello, Bologna
Nel 1846 l’astronomo francese Urbain Le Verrier predice l’esistenza del pianeta Nettuno, allora ancora inosservato. Studiava il pianeta Urano e aveva intuito che alcune discrepanze fra le predizioni della teoria di Newton e il movimento osservato potessero essere dovute all’attrazione di un nuovo pianeta sconosciuto. Il 23 settembre 1846 l’osservatorio di Berlino trova effettivamente un nuovo pianeta, a meno di un grado dalla posizione prevista da Le Verrier. Lei chiederebbe: «Ma siamo proprio sicuri che si tratti di quello stesso pianeta che Le Verrier aveva prefigurato?». La domanda non ha senso: la previsione era l’esistenza di un pianeta in un certo punto del cielo, non il suo nome e cognome. Se la particella osservata al Cern avrà caratteristiche inaspettate, saremmo tutti molto contenti della novità, ma per ora ha le caratteristiche previste dal Modello Standard. Questo mi porta alla seconda domanda: il Modello Standard è «una fra altre teorie che ancora non spiegano nulla?». La risposta è un chiaro no. Prima di tutto, il Modello Standard spiega innumerevoli cose. Riduce la sterminata complessità di tutti i fenomeni che osserviamo (eccetto la gravità) a un semplice sistema di equazioni. La sua capacità esplicativa è strepitosa. Lascia anche molte domande aperte, e ne apre di nuove, ma questo vale per tutte le teorie fin qui concepite dall’umanità. In secondo luogo, il Modello Standard non ha, al momento, alternative solide. Esistono numerosi tentativi di estenderlo, con teorie chiamate supersimmetria, technicolor eccetera. Alcuni di questi tentativi sono interessantissimi, ma nessuna di queste teorie per ora può vantare i successi del Modello Standard: l’aver previsto molti fenomeni che sono stati effettivamente verificati, e, soprattutto, non avere fatto predizioni che poi non sono state verificate. In futuro le cose potranno cambiare, e molti lo sperano ardentemente. Ma per ora siamo qui. Non confondiamo la speranza con i risultati.
Carlo Rovelli
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Leggo nel Domenicale del Sole 24 Ore dell’8 luglio scorso il divertente dialogo di Roberto Casati e Achille Varzi tra Lei, che chiede «che ore sono?», e Lui che per rispondere vuol sapere «quando?», e dopo aver ottenuto da Lei che riformulasse la domanda rispetto al tempo: «Mi dice che ora è ora?», la induce a perfezionarla anche sul piano dello spazio: «Che ora è ora qui!». E lui finalmente può soddisfare la domanda: «Qui e ora, sono... le cinque e venticinque». Il giocoso ragionamento prosegue sulla stessa linea che prevede prima il quando e poi il dove, prima il tempo e poi lo spazio, prima il nunc e poi l’hic. Salvo che a Lui, nel dare appunto la prima risposta, capita di rovesciare i termini dando loro la successione consueta: non «ora e qui» ma «qui e ora»: hic et nunc, non nunc et hic. Però la successione logica tempo-spazio, praticata da Lui, mi ha ricordato Carlo Diano (1902-1974) e il modo in cui la spiega nel suo geniale libretto Forma ed evento (1952). Chiarendo le due categorie fenomenologiche come principi interpretativi del mondo greco in una lettera a Pietro de Francisci pubblicata sul «Giornale critico della filosofia italiana» (1953, 3), Carlo Diano cominciava dall’evento: «Che piova è qualcosa che accade, ma questo non basta a farne un evento: perché sia un evento, è necessario che codesto accadere io lo senta un accedere per me». E in quanto l’evento non è tutto ciò che accade bensì quello che accade a qualcuno, esso «è sempre hic et nunc»; ed «è chiaro che non sono l’hic et nunc che localizzano e temporalizzano l’evento, ma è l’evento che temporalizza il nunc e localizza l’hic». Quindi: «l’hic è in conseguenza del nunc: perché è come interruzione della linea indifferenziata e non avvertita della durata – e cioè dell’esistenza come esistenza vissuta – che l’evento emerge e s’impone, ed è per essa e in essa questa interruzione che l’hic è avvertito e si svela». Allora, non potendo farla a Diano questa domanda, sperando che non sia di una semplicità insormontabile, la pongo a Lui, che mi sembra seguirne la logica: se il luogo è avvertito e si svela come conseguenza del tempo, perché diciamo prima «qui» e poi «ora» – hic et nunc – e non il contrario?
Paolo Anelli, Assisi
Lui. Caro signore, concordo! Se parliamo di eventi in senso fenomenologico, il quando viene prima del dove. È così che succede quando si viaggia: accade qualcosa – un temporale, una foratura, una telefonata – e solo allora ci accorgiamo di dove siamo. E la vita è un lungo viaggio. È davvero un peccato che Diano non abbia riassunto la propria concezione invertendo i termini: Nunc et hic sarebbe stato un ottimo slogan!
Lei. Chiedo scusa se mi intrometto, ma noi non si parlava di eventi. Io volevo solo sapere l’ora. E fino a prova contraria, il nostro linguaggio si prende ottima cura del quando: i tempi verbali servono a questo. Se formulo la domanda al presente, «Che ora è?», è ovvio che intendo adesso. Riconosco tuttavia che la grammatica non si prenda cura del dove...
Lui. Quine diceva che questo è un vero e proprio pregiudizio. Perché mai le relazioni temporali devono essere esaltate grammaticalmente più di quelle spaziali?
Lei. Forse perché solo il tempo ha una direzionalità intrinseca?
Lui. Altra acqua al mulino della fenomenologia! Io penso comunque che sarebbe meglio restaurare una certa equità. La scienza ci dice che tempo e spazio sono inscindibili. D’ora innanzi chiederò sempre «Quandove?»: un’unica parola, così evitiamo anche il problema del signor Anelli.
Ficcanaso. Quandove? E perché non Dovequando?
Achille Varzi, Roberto Casati