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 2012  luglio 15 Domenica calendario

LOST - Sempre impegnati a parlar male della televisione, in molti sembrano non essersi ancora accorti del fatto che tra i meriti della tv contemporanea c’è anche quello di aver dato nuova dignità, teorica ed empirica, alla figura dell’autore: si sa che la produzione televisiva è un processo collettivo, a cui partecipano in modo sinergico molte figure professionali

LOST - Sempre impegnati a parlar male della televisione, in molti sembrano non essersi ancora accorti del fatto che tra i meriti della tv contemporanea c’è anche quello di aver dato nuova dignità, teorica ed empirica, alla figura dell’autore: si sa che la produzione televisiva è un processo collettivo, a cui partecipano in modo sinergico molte figure professionali. Ma è anche vero che se la qualifica di «autore» era un tempo prerogativa esclusiva di territori nobili come la letteratura e il cinema, oggi è terreno comune anche del più popolare dei media. In un percorso che parte da Alfred Hitchcock, passa per Steven Bochco (che ha ideato e scritto Hill Street giorno e notte) e arriva ai grandi producer seriali dei giorni nostri, da Aaron Sorkin ad Alan Ball e J.J. Abrams, tra il romanziere e la figura dello showrunner la linea sembra essersi fatta sempre più sottile. Sempre più facile associare un nome a una poetica, a uno stile narrativo e visivo, a ricorrenti espedienti linguistici, a un peculiare sguardo sul mondo. La figura dello showrunner sta a metà strada tra il concetto romantico e letterario di autore e quello collaborativo e tecnico dell’industria culturale contemporanea. È responsabile di fronte al network di tutti gli aspetti della serie tv, quelli creativi, certo, ma anche quelli più manageriali: la gestione del cast, il budget, la location. Prendiamo J.J. Abrams. Da Lost ad Alcatraz, passando per Felicity, Alias, Fringe e altre ancora, è l’autore delle saghe fatte apposta per scalfire le nostre certezze, intaccare la nostra comprensione razionale dei fatti. Saghe in cui gli universi narrativi sono mondi estesi e iper-dettagliati, in cui ogni personaggio, ogni particolare funziona come un innesco al racconto, come una porta che si apre su altri mondi, altre storie. Pensiamo ai celebri flashback dei personaggi di Lost, alle celle dei criminali di Alcatraz, alle molteplici identità sovrapposte delle spie di Alias, all’universo alternativo in cui precipitano gli investigatori di Fringe. Figlio di produttori di cinema e televisione, Abrams nasce a New York nel 1966 e cresce a Los Angeles, dove muove i primi passi nella fabbrica dei sogni hollywoodiana, come ideatore di soggetti e sceneggiatore. Gli interessa anche la musica, tanto che firma la colonna sonora di alcuni progetti giovanili (e continuerà a farlo anche per le successive produzioni più importanti, insieme all’amico Michael Giacchino). Il primo grande blockbuster cinematografico in cui è accreditato, nel 1998, è il colossal fantascientifico Armageddon, seguiranno poi Cloverfield, Super 8 con Steven Spielberg, Star Trek, Mission: Impossible. Proprio nel 1998, Abrams esordisce in una forma di racconto molto diversa da quello del cinema, la serialità televisiva: sul network The WB, va in onda Felicity, un telefilm in quattro stagioni che racconta il romanzo di formazione di un gruppo di studenti della New York University, tra amori, competizioni e ricerche esistenziali nella sottile zona d’ombra che li separa dalla piena maturità dell’età adulta. Abrams è la firma dietro tutta la serie: produttore creativo ed esecutivo, sceneggiatore, regista, collaboratore alla colonna sonora. È la sua prima prova televisiva e si capisce che il suo stile non è ancora formato: la qualità della scrittura si riconosce, ma Felicity è per Abrams quello che in inglese si definisce una stepping stone, un trampolino che lo proietta nella maturità stilistica e autoriale, sancita dalle cinque stagioni di Alias, dal 2001 sul network Abc. La protagonista Sydney Bristol è una spia dalla doppia vita, il telefilm è una macchina narrativa perfetta, che non lascia scampo allo spettatore e alla sua curiosità, alternando momenti di introspezione a molte sequenze d’azione dalla qualità cinematografica. Difficile tenere il filo del racconto, con le trame che si accumulano intrecciate di episodio in episodio, e sviluppano un modello di serialità fortemente orizzontale. Felicity, Alias, sono tutti passi preparatori alla serie che consacra Abrams come autore feticcio, di culto, capace di creare hype e religiosa attesa anche solo all’annuncio di una sua nuova collaborazione. La genesi di Lost è quasi rocambolesca: nel 2003 il chair del canale americano Abc, Lloyd Braun, suggestionato dal successo del film Cast Away e del reality Survivor, inizia a immaginare che l’archetipo del naufragio, del manipolo di sopravvissuti a un disastro aereo abbandonati al loro destino su un’isola deserta, possa funzionare come intreccio per un prodotto seriale televisivo. Incarica Jeffrey Lieber di scriverne la puntata pilota, ma il risultato, Nowhere, non lo soddisfa. Allora si rivolge a J.J. Abrams, che in quel momento è al lavoro per lo stesso canale sulla serie Alias: Abrams inizia così a sviluppare insieme a Damon Lindelof una serie basata su un’incredibile mitologia fantasy, su un universo misteriosofico tutto pervaso di conflitti tra scienza e fede, razionalità e istinto, coincidenza e destino, in cui i personaggi sono spesso incarnazioni di concetti e posizioni filosofiche. Dall’uomo di fede John Locke, al buon pastore Jack Sheperd, al predestinato Desmond Hume. Lo fa più per rispetto ai boss della Abc che per vero interesse, e i due quasi si divertono a progettare un racconto complesso, intricato, dispiegato su diversi livelli temporali, tra flashback e flashforward, qualcosa che in televisione — su un canale «generalista» come Abc poi — non si era mai visto. I due erano convinti che il progetto non sarebbe mai andato in porto, che Braun l’avrebbe considerato troppo rischioso, troppo difficile catturare il pubblico tradizionale con delle trame inter-episodiche così fitte, troppo cervellotici gli intrecci. Impossibile fidelizzare un pubblico distratto come quello televisivo fino a quel punto. E invece. È vero, dopo una partenza stellare, gli ascolti di Lost sono progressivamente calati, ma il telefilm ha presto guadagnato lo status di culto, ha generato una letteratura accademica e critica sterminata, ha segnato una generazione di epigoni, tanto che il racconto complesso, «a incastro», ha dominato con alterne fortune un’intera stagione di serialità Usa, da Heroes a Flashforward. Il fatto curioso è che Abrams abbandona la produzione di Lost circa alla metà della prima stagione, lasciandone le redini a Lindelof e Carlton Cuse: lo show però continua a essere percepito come una sua creatura, ormai indissolubilmente legato al suo brand autoriale, di cui porta impressi molti dei «marchi di fabbrica», dallo stile visivo cinematografico, al passo del racconto che procede per scarti e successivi accumuli di materiale narrativo. Ma soprattutto Lost esalta alcune delle ossessioni tematiche della poetica di J.J. Abrams, quel filo sottile tra il mondo reale e il «what if», le realtà parallele, quello che avrebbe potuto succedere se solo... È l’isola di Lost che si sposta lungo la linea del tempo, ma è anche l’universo alternativo che accoglie i membri della divisione investigativa speciale dell’Fbi Fringe nella serie del 2008 per Fox. Lo scienziato tanto geniale quanto disturbato Walter Bishop, suo figlio Peter e l’agente Olivia Duhnam scoprono l’esistenza di un mondo speculare a quello reale, e devono affrontare gli imprevedibili rischi dei numerosi punti di contatto tra le due dimensioni. Fringe conferma in tutto la poetica di Abrams, ne mostra gli aspetti più irresistibili e quelli più macchinosi. Non sempre la serie riesce a mantenere un equilibrio plausibile tra i due universi, sdoppiare spazi, tempi e personaggi senza perdere credibilità e qualità di scrittura. Quando ci riesce, sono momenti di grande televisione. Quando non lo fa, il racconto cede al cervellotico e all’artificiale, perde fluidità, fatica a indirizzarsi a un pubblico che vada oltre la nicchia dei fan. È quello che succede con Undercovers, la spy story che produce per Nbc, cancellata dopo sole 13 puntate. Tra le ossessioni di Abrams c’è anche il piacere per le liste, liste di persone, liste di numeri da decifrare, simboli da decrittare e collegare. Come ha raccontato lui stesso su «Wired», il suo lavoro è un invito ad andare oltre l’apparente banalità del reale, ad avventurarsi nel mistero, a vivere un’esperienza di conoscenza in cui il processo conta tanto quanto il risultato finale. Lo showrunner incarna l’autorità che regge i fili di questa fabbrica del fantastico e li dispiega piano piano, come avviene in Six Degrees (Abc, 2006), serie che co-produce come uno di quei suoi giochi a incastro che incrociano le vite umane attraverso una rete di coincidenze e fatalità. Un filo sottile, che ritorna anche nelle vicende dei detenuti di Alcatraz (Abc, 2012). Com’è possibile che una persona svanisca nel nulla, in un limbo di eternità? Perché dobbiamo sempre fare i conti con un’isola? Perché diffidiamo così tanto del sovrannaturale? Perché il flashback assume anche qui una dimensione metafisica? Ancora una volta ad Abrams importa più la costruzione drammaturgica della rivelazione ultima dei segreti della celebre prigione, così come avviene in Person of Interest, intricato giallo scritto con Jonathan Nolan, che riporta a galla le ferite Usa dopo l’11 settembre, l’incubo della videosorveglianza, la paura di non essere mai abbastanza sicuri (Cbs, 2011). Su Revolution, il nuovo progetto su cui è al lavoro per Nbc, sappiamo solo che è ambientato in uno scenario post-apocalittico, e racconta i destini di un gruppo di superstiti. Come dice Jack Shepard, il tormentato leader dei naufraghi di Lost, nella quinta puntata della prima stagione: «Sono già sei giorni, e aspettiamo ancora. Aspettiamo che qualcuno venga. Ma se non venissero? Basta aspettare: ora dobbiamo cominciare ad affrontare la situazione (...). Una settimana fa eravamo estranei. Ma siamo tutti qui ora, e Dio solo sa per quanto ancora. Ma se non riusciamo a vivere insieme, moriremo da soli». Gli uomini restano irrimediabilmente distanti finché, in qualche modo, non si consumano le loro differenze; spesso è il dolore a riunire i diversi orizzonti della nostra comune, mascherata miseria. Di questo parla J.J. Abrams. Aldo Grasso Cecilia Penati