Giuseppina Manin, Corriere della Sera 15/07/2012; Valerio Cappelli, ib.; Enrico Girardim, ib., 15 luglio 2012
3 articoli – ABITI FANE’ E CIOCCOLATINI. MOZART ANCHE NEI CAFFE’ - Amadeus la detestava cordialmente
3 articoli – ABITI FANE’ E CIOCCOLATINI. MOZART ANCHE NEI CAFFE’ - Amadeus la detestava cordialmente. D’altra parte aveva le sue buone ragioni per avercela su con Salisburgo il giovane Mozart. Ultima e definitiva il calcio nel sedere ricevuto dal nobile stivale del conte von Arco, ciambellano del potente arcivescovo Colloredo, datore di lavoro del compositore. Un congedo ignominioso dopo molti contrasti. In fretta e furia Wolfgang fece le valigie per Vienna e giurò: «Qui non ci torno più». E così fu. Almeno in vita. Morto e glorificato, ecco che quel ragazzaccio sconveniente diventa il figlio più illustre di Salisburgo, attrazione massima locale da dare in pasto a turisti e appassionati di musica. Così chi oggi arriva nell’incantevole cittadina sul fiume Salzach, ai piedi della bianca fortezza che la sovrasta, si imbatte subito nella statua bronzea del musicista eretta a metà Ottocento e sistemata proprio davanti al palazzo arcivescovile, dove le ore sono scandite da un carillon con l’aria di Papageno da «Il flauto magico». Pochi passi, ed ecco la grande piazza della Residenza dove carrozze e cavalli per city tours posteggiano davanti al palazzo sede di un’importante pinacoteca. Girato l’angolo, un’altra piazza dominata dal maestoso Duomo il cui stile barocco contrasta con la vicina chiesa gotica dei Francescani, luogo deputato per messe d’autore e concerti di musica sacra. Alla musica a Salisburgo non si sfugge. Basta passeggiare per il centro per imbattersi in sconosciuti talenti del violino, della chitarra o della glass harmonica, una serie di bicchieri di cristallo con dentro dell’acqua, fatti vibrare in modo celestiale dai polpastrelli del suonatore. Dopo tanta arte, una pausa ristoratrice pone il dubbio tra Furst o Tomaselli. Quest’ultimo è il caffè per eccellenza, fondato dal figlio di un tenore milanese arrivato a Salisburgo al servizio del prepotente Colloredo nel 1781, lo stesso anno in cui Mozart viene cacciato. Boiserie settecentesche, divanetti in velluto, camerierine con candidi grembiuli e vassoi traboccanti torte pannute. Di fronte, dall’altra parte di una piazzetta invasa da bancarelle di fiori, l’antagonista Furst. Paul Furst, il fondatore, passò alla storia per aver inventato a fine Ottocento delle sfere di cioccolato farcite di marzapane. Da lui genialmente battezzate «Mozartkugeln». In italiano «palle di Mozart». Suona male, ma l’assaggio è come una «madeleine». Meglio se accompagnato da un caffè alla panna servito in lunghe tazze di porcellana bianca. Per il resto l’anima di Salisburgo, metà popolare e metà aristocratica, la si scopre bighellonando tra le stradine antiche. Come la Getreidegasse, dove sorge la casa natale di Mozart. O la Goldengasse, vetrina di gioiellieri da lustrarsi gli occhi. Meglio ignorare i soliti «store» di abbigliamento a poco prezzo, e farsi tentare dagli atelier di loden su misura, gilet di seta, zuccherosi dirndl, i vestiti tradizionali per signore, da sfoggiare anche a teatro. Il foyer del Palazzo del Festival in questo senso è uno luogo da non perdere. Una passerella di abiti e gioielli suntuosi, spesso un po’ fané, come usciti da epoche lontane. Non a caso Max Reinhardt, fondatore del Festival con Richard Strauss e Hugo von Hofmannsthal, sosteneva: «Tutta questa città è un palcoscenico». Ma anche un set cinematografico. «The Sound of Music», il film girato nel 1965 da Robert Wise, ha lasciato tracce permanenti nei pellegrinaggi organizzati sui luoghi dove Julie Andrews, governante di casa von Trapp, cantava «My favorite things». «Tutti insieme appassionatamente», come recita il titolo italiano, tra conventi, laghi, castelli, compreso quello di Mirabell con il suo giardino all’italiana e quello di Hellbrunn, famoso per i giochi d’acqua nel parco. Tra le gite fuori porta, le miniere di sale di Hallein, fonte dell’antica ricchezza e del nome della città. Ma è ad Anif che si chiude il nostro giro. Non tanto per il castello, dove c’è anche un ottimo ristorante, ma per il piccolo cimitero. Qui tra le poche lapidi è nascosta quella di Herbert von Karajan, direttore leggendario, re della musica di Salisburgo dal dopoguerra fino alla morte, nel 1989. Un fazzoletto di terra e una pietra con solo il nome e le date, la sua tomba. Ai grandi non serve altro. Giuseppina Manin SALISBURGO. IL «CRESCENDO» DELLA MUSICA - Ogni volta che c’è il cambio della guardia al Festival di Salisburgo e arriva il nuovo direttore artistico, si annunciano novità epocali, che restano sulla carta. In sostanza tutto si riduce alla querelle sui registi cosiddetti trasgressivi che dominano nel Nord Europa. Dopo la morte di Karajan (1989) ci fu un cambio radicale, l’aspetto visivo prese il sopravvento su quello musicale, fu impossibile tornare a un’idea di classicismo. Ora comincia l’era di Alexander Pereira, 64 anni. Ha lasciato l’Opera di Zurigo che ne ha fatto dal niente il cuore della musica barocca, è il teatro dove Cecilia Bartoli si sente a casa. Con lui le cose cambiano per davvero. Sulle regie «spinte» si vedrà; a leggere i nomi siamo sul filo di un’innovazione ora iconoclasta ora di grande qualità. Ma il «suo» Festival, che resta la vetrina dell’eccellenza accogliendo i più grandi interpreti del mondo, presenta già tante importanti novità. Pereira, vuole illustrarle? «Anzitutto il calendario si allunga di una settimana, e i primi dieci giorni sono dedicati alla musica sacra. Le Ouverture Spirituelle cominciano il 20 luglio con La Creazione di Haydn diretta da Gardiner; è una cosa personale dal momento che mia nonna finanziò la prima esecuzione della Creazione, pezzo che in ognuno dei miei cinque anni aprirà la rassegna. In questo ciclo abbiamo Abbado con l’Orchestra «Mozart», Mehta e Harnoncourt il quale eseguirà la Messa K 262 che Mozart compose per il Duomo salisburghese: qui la riproporremo ricostruendo con dei pannelli l’acustica com’era al tempo del compositore. Ogni anno ci apriremo a un’altra religione, cominciamo da quella ebraica con Bloch e la Israel Philharmonic e un brano di Sheriff in memoria dei bambini del ghetto di Varsavia. Infine il Messiah di Händel diretto da Hogwood nella strumentazione che ne fece Mozart. La musica sacra è sparita dalle chiese, non hanno più soldi per farla: ma alcuni tra i maggiori capolavori appartengono ad essa, credo che influenzeremo altri festival a seguire la nostra strada». Uno degli spettacoli più attesi è La Bohème: sembra incredibile, ma non si è mai fatta a Salisburgo. «Io ero furioso per questo pregiudizio su Puccini legato all’odio che ne aveva Mortier, il successore di Karajan, e diventò chic questa idea. Salisburgo in passato ospitò solo Turandot, mentre Tosca andò al Festival di Pasqua, che è un’altra cosa. Volevo chiudere i conti con questa macumba nel mio primo anno». Il cast (con la Netrebko) presenta un’accoppiata italiana, il direttore Daniele Gatti e il regista Damiano Michieletto che colma una lacuna di tredici anni (l’ultimo era stato nel ’99 Luca Ronconi). Pereira, lei ha sempre amato la Bell’Italia: ma il nostro gusto, a volte estetizzante, è ritenuto superato? «La tradizione italiana è rimasta lontana dalla cultura austro-tedesca. Ma la verità sta nel mezzo, e fra i nuovi registi italiani Michieletto (che ha lavorato molto con me a Zurigo) si sposa perfettamente alla nostra idea di teatro. Comunque non puoi fare l’avanguardia senza portare il sacco delle radici. Per me, esistono solo buone o cattive regie, non quelle moderne o di tradizione». Continuando con l’Italia, nel 2013 c’è un debutto importante... «Sì, Antonio Pappano nel Don Carlo, la sua prima opera qui. La Lulu di Abbado? Era un vecchio progetto, Claudio non vuole più dirigere opere, ma terrà concerti». Le dispiace che Riccardo Muti dopo quarant’anni qui ha detto basta alla lirica? «Il prossimo anno intanto dovrebbe fare Nabucco in forma di concerto con l’Orchestra dell’Opera di Roma. Poi cercheremo di convincerlo». Le altre novità. Sostiene Pereira: «Un festival dev’essere unico, dunque solo nuove produzioni, che costano fino a 800 mila euro. Mi lasci sottolineare Il Flauto magico: la prima volta che un’opera del tardo Mozart qui si fa con strumenti antichi, ed è la prima volta anche per Harnoncourt; il debutto alla regia lirica di Alvis Hermanis per Die Soldaten di Zimmermann; la possibilità di vedere Arianna a Nasso di Strauss nella versione originale, con la voce di Kaufmann al debutto. Ho trovato nuovi sponsor, il budget è salito da 52 milioni 500 mila a 60 milioni 600 mila (una rassegna di un mese e mezzo ha una disponibilità superiore a un anno di Opera di Roma, ndr). Per la prima volta, gli sponsor con 14 milioni superano i fondi che ci dà lo Stato. Prima, i soldi andavano per i costi fissi e non più nell’arte. Dal 2013 abbiamo commissionato nuove opere che saranno di Kurtag, Dalbavie, Adès e Widmann». Come si fa, in tempo di crisi, a crescere nei numeri in questo modo? «Una rassegna internazionale non si deve dirigere in modo localistico, austriaco. Io cerco fondi a New York, Rio, Londra, Shanghai, Tokyo». In questo momento lei è a Roma: anche qui per soldi? «Mezzo e mezzo, come dite voi». Pereira, sa che lei è il primo direttore artistico austriaco a Salisburgo dopo Karajan? Sorride: «Non ci avevo pensato, mi fa molto piacere». Valerio Cappelli DA JEDERMANN AI «SOLDATI» UN’ETICA PENSATA DA WAGNER - La nascita del Festival di Salisburgo si deve a grossi calibri della vita culturale dei primi anni Venti come Max Reinhard, Hugo von Hofmannsthal, Richard Strauss e Bruno Walter. Ma l’intuizione risale a sessant’anni prima quando, in occasione dell’erezione di un monumento dedicato al salisburghese Mozart, Wagner pronunciò un discorso nel quale pose l’accento, lui che aveva già in testa Bayreuth, sulla necessità di creare un festival incentrato sulla musica del «genius loci». L’atto ufficiale di nascita del festival si considera però il 22 agosto 1920 quando l’azione morale «Jedermann» di von Hofmannsthal venne rappresentata per la prima volta nella piazza del Duomo per la regia di Max Reinhard: l’evento recava con sé l’idea, già chiara ai fondatori, che un festival non fosse una semplice rassegna di arte dal vivo concentrata nel tempo e nello spazio (come lo sono oggi la miriade di festival inutili e generici sparsi in ogni dove) ma un luogo che stimolasse l’arte contemporanea e che riunisse, sotto il nume tutelare di Mozart, i migliori artisti, interpreti e studiosi d’Europa. Non bastasse, affermavano i fondatori che la sonnolenta cittadina, posta al centro del centro del continente, potesse diventare un unico grande teatro, che il rito del teatro e della musica cioè si potesse celebrare nei cortili come nelle piazze, all’Università come nelle chiese. A Bayreuth si davano convegno ogni estate i wagneriani di tutto il mondo ma l’intuizione di un festival come la ebbero a Salisburgo rappresentò una rivoluzione per la vita musicale europea. Chi prima chi dopo, tutti i paesi più civilizzati crearono una loro Salisburgo, copiando quel modello. Che intanto prendeva forma, specializzandosi in due direzioni: da un lato richiamando i migliori interpreti del mondo (in anni in cui la circolazione degli artisti non era facile e normale come lo è oggi), dall’altro producendo l’allestimento di opere in prima assoluta, circostanza di cui beneficiarono von Einem, Orff, Blacher, Egk e altri autori. In quei primi anni la crescita del festival fu esponenziale. E già nel 1927 Richard Strauss inaugurava la nuova sede (il primo Festspielhaus) dirigendo il «Rosenkavalier», mentre la città si dotava di strutture turistiche vieppiù organizzate e il mondo politico e bancario si attrezzava per sostenere e sfruttare il fenomeno: un «boom» — come avrebbe scritto Stefan Zweig nel «Mondo di ieri» — tale per cui «re e principi, milionari americani, star del cinema, appassionati di musica, artisti, scrittori e snob: tutti si incontravano d’estate a Salisburgo». Naturalmente le cose cambiano con l’avvento del Nazismo. A partire dal ’38 gli artisti ebrei, tra cui lo stesso Reinhard, furono banditi. Lo «Jedermann», che era divenuto abitudine rappresentare ogni anno, come oggi, venne cancellato dal cartellone. Il festival divenne strumento di propaganda. Ma il seme era buono, se nell’immediato secondo dopoguerra le forze alleate decisero che non andasse chiuso ma anzi rilanciato, in virtù della sua vocazione internazionale, come luogo di confronto e di pacificazione mediante la cultura. I Cinquanta furono anni di difficoltà economiche (nel 1952 il festival non aprì i battenti)ma anche di apertura verso le forme più sperimentali della «nuova musica». L’era moderna del Salzburger Festspiele inizia negli anni Sessanta con la direzione del salisburghese Herbert von Karajan e con l’inaugurazione del nuovo Festspielhaus, un gigantesco edificio scavato nella montagna nel quale furono ricavate tre sale. Dagli anni Sessanta agli Ottanta, il festival diventò una vetrina internazionale molto influenzata, secondo alcuni esageratamente, dal potere delle maggiori case discografiche, che qui aprirono i loro uffici: un’idea meno sperimentale ma più spettacolare che oggi è facile criticare, ma che permetteva al pubblico di ascoltare tutti, proprio tutti i maggiori musicisti del mondo. Dai Novanta a oggi, con le direzioni di Gerard Mortier, di Peter Rusicka, Jürgen Flimm e ora di Alexander Pereira, sia pur rimanendo la prestigiosa vetrina di grossi nomi che è, la rassegna è ritornata alla contemporaneità, nel senso che ha aperto le porte ai compositori d’oggi e alle forme più sperimentali, e spesso controverse, della messinscena. Quasi cent’anni sono passati dallo «Jedermann» del 1920 ai «Soldaten» di Zimmermann, di gran lunga lo spettacolo più interessante dell’estate 2012. Ma è certo che nessuna vetrina, nessuna rassegna, nessun progetto può veramente contrastare la storia e il prestigio del Festival di Salisburgo. Enrico Girardi