Alberto Arbasino, Corriere della Sera 15/07/2012, 15 luglio 2012
EPICA E NOSTALGIA DELLA MODERNITA’ CON LE DONNE MALEDETTE DI KLIMT
«Andrem raminghi e poveri, un pan chiedendo agli uomini... Forse talor le ciglia, noi bagnerem di pianto, ma sempre al padre accanto, la figlia sua starà...». Trionfo di Leo Nucci, nell’interpretare con tanta efficacia un vecchio genitore così autoreferenziale ed egocentrico. Riecco, ossessivamente verdiano, il «complesso di Rigoletto»: un padre talmente egoista e attaccato alla figlia da allontanare magari con violenza ogni corteggiatore suo coetaneo, per farsi curare negli imminenti acciacchi. E infischiandosene se la poverina, a sua volta, orfana e vecchia e vergine e nubile, dovrà andare mendicando di porta in porta.
Allora, sulla scena, un luttuoso bosco di tronchi paralleli, come nella pittura austriaca e russa della fine Ottocento. E un grande letto molto usato ma senza alcun fine di amplessi o incesti boscherecci. Talvolta entra un emiciclo di tipo parlamentare o giudiziario, per uomini vestiti in stile Brooks Brothers, e una duchessa munita di quella volpe che gli indimenticabili Legnanesi definivano la «gulp». Il più cattivo, in black leather in quanto sindrome di malvagità. Giocherellano molto con lenzuola e cuscini; e ottimi cantanti, dopo una ouverture che il Don Magnifico rossiniano giudicherebbe «di un’estrazion bassissima».
La tomba incombe per tutta la serata. «Piangi, piangi, lungi, lungi, langue, sangue, ferri, sgherri, t’affretta, vendetta, squilla, vacilla, l’affanno, il tiranno, orribili, infelici, mezzanotte...». (Luisa Miller, fra i temporali, alla Scala).
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Molto piccola, ma con un ricco catalogo, pieno di «ubicazioni ignote», la mostra veneziana di Klimt e dei suoi colleghi «secessionisti» ne rivela anticipazioni e aspetti assolutamente Kitsch, soprattutto nei gioielli, mobiletti, ninnoli. Ma anche nella pittura ci si trova sui territori cari a Gillo Dorfles. E però abbondano anche le Pompe del Demonio. Quelle Belle Dame Senza Mercè che abbondavano una volta, ai bei tempi del Decadentismo fornito di Carni, Morti, Diavoli... Di qualità! E poi, quanti bei vecchi film storici con «tricoteuses» trucibalde che davanti alla ghigliottina si eccitavano sferruzzando ad ogni testa mozzata che si abbatteva rantolante nel paniere apposito... Ah, quali orgasmi multipli si raggiungevano per la decapitazione di Maria Antonietta!
Qui, adesso, queste Salomè e Giuditte di Klimt appaiono «super-maledette» grazie all’ornato bizantino e aureo che le circonfonde, spietate e autorevoli. Ma lì per lì si confrontano alle signore e signorine ritratte in abiti di sontuosità architettonica più sfrenata che in qualunque Settecento a balze e volants. E lasciando le stesse facciotte viennesi borghesi, immaginarle in un «tailleurino» di Chanel, o in scena per un’opera loro coetanea di Richard Strauss, non già una Salome o una Elektra bensì quel Rosenkavalier con la trovata fondamentale e geniale dei valzer anacronistici ai tempi di Maria Teresa anche a causa delle sfarzose toilettes? Ecco dunque la potenza e la sapienza di quella pittura a dorature. Con le Salome e Giuditte, già un anticipo di ogni Gay Pride. Tutti al sambodromo.
Ma, inoltre, una ritrattistica di quei «cenacoli artistici» viennesi evidentemente perenni che negli anni Ottanta vennero descritti da Thomas Bernhard in A colpi d’ascia e che in quei tempi ebbi la ventura di contemplare con horror non a un Ibsen al Burgtheater fra epigoni di Webern come nel romanzo, bensì abbigliati da vecchi artisti secessionisti alla Staatsoper per una Scala di Giacobbe incompiuta di Schönberg. La tremenda rappresentazione delle smorfiose chiacchiere sul «luccioperca» a tavola — proveniente da questo o quel laghetto montano? — era identica alle vanvere dei camerieri nel dopo- Schönberg in un celebre restaurant.
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A Venezia, però, tra le fatalone e le tremendine, e le iterazioni di motivetti semplici o complessi, e i modellini lignei d’occasione, e le cornici sovente spropositate per operine magari modeste, mancano i Paesaggi di Klimt. Eppure se ne fece una cospicua mostra al Belvedere viennese dove risiedono quasi tutti, oltre che in proprietà private spesso elvetiche di ubicazione notissima. Appunto di lì Giulio Bollati, negli anni Settanta, trasse la copertina per una nuova edizione delle mie Piccole Vacanze presso Einaudi. Lì sono anche interessanti i paesaggi italiani con laghi.
Ancora si possono ricordare, vari decenni fa, ottime iniziazioni a Klimt su un catalogo di Emil Pirchan, che elencava Allegorie, Emblemi, Idilli, Tragedie, Leggende, Amiche, Danaidi, Dioniso, Taormina, Globe, Tespi, Favole, Commedie, Gorgone, Amori, Giugno, Mattini, Schubert, Giardini, Galline, Verità, Filosofia, Invidia, Malcesine, Cascinali, Morti, Baci, Ninfe... E alla Libreria Vinciana in Montenapoleone si poteva ancora acquistare qualche pezzo di «Nachlass» klimtiane ereditato da «Bottega di Poesia». Se ne riscontravano pezzi analoghi in casa di un cospicuo editore austriaco a Londra. E un direttore della Royal Academy li definiva «riproduzioni antiche costosissime». Si ritrovava un ritratto klimtiano di una baronessa Wittgenstein piuttosto bruttina ma in vesti sontuose. Mentre nel catalogo veneziano appare un rozzo Beethoven nudo in marmo di Max Klinger dono al Museo di Boston del tremendo Paul Wittgenstein, committente spietato di concerti per la mano sinistra a Ravel e molti altri. Quando era ancora facile trovare a Londra dello stesso Klinger una rissa di centauri nel grano in fiore.
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Anche anticipazioni di vinili? Ecco un «Progetto per Compimento»: una grande coppia uomo-donna avvinti in piedi come nel Bacio (che qui non è venuto) è ricoperta da una ricchissima «mimetica» appunto a dischi da 33 e 45 giri, che ne annulla ogni forma corporea. E accanto ai numerosi tronchi paralleli e scenici di pini e betulle di vari artisti coetanei, ecco una serie di Muse per sala da pranzo, di Franz Matsch.
Ovvio paragonarle alle colleghe affrescate nel Castello di Voghera intorno al 1500 dal Bramantino, giacché si è appena vista la sua bella e generosa mostra al Castello di Milano. (E anche qui, diversi capolavori si trovano solo nel catalogo). Così, a una divertente distanza di quattro secoli, la Melpòmene di Voghera appare acconciata da monaca santa nella tipica posa della Melanconia, con la testa appoggiata sulla mano sinistra, quella da pranzo viennese si mostra austera e afflitta, coi capelli sciolti a destra, e una coroncina o diadema con maschere tragiche. In compagnia di Clio, giovane scapigliata ragazzina. (E la Storia?).
Urania è brunissima a Vienna, con la bionda e scapestrata Polinnia, per le arti sceniche, mentre è biondissima a Voghera, con stelline sulla chioma o parrucca. Tutta in bianco sporco su fondo bianco sporco un astrolabio in mano e occhi e indice rivolti al Cielo. Qui Polinnia è danneggiata, ma ha un altro o un’altra (non Musa) ai piedi. E anche Talìa risulta avariata, mentre Erato si appoggia a un grosso compasso, dunque sembra propensa alla Geometria più che alla Lirica. Finalmente, solo a Vienna si vede una Tersìcore scollata e birichina. Ma soltanto al Castello Sforzesco rifulgono i dodici Arazzi Trivulzio, dedicati ai mesi e pieni di figure agricole e soltanto laiche.
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Altrettanto gratuita, e non affollata ma deserta («domani è un altro giorno?») si constata l’«Addio anni 70» al Palazzo Reale. Una gran voglia di rimozione? Quando negli anni 50 studiavo Legge in via Passione, al Jamaica si trovava ogni sera Pietrino Bianchi, con Ugo Mulas, Piero Manzoni, Mario Dondero, Alfa Castaldi. Ci si vedeva con Arnaldo Pomodoro, Gianni Testori, Ottiero Ottieri, Camilla Cederna, Emilio Tadini, Valerio Adami. La sera, spesso alla Scala, senza file né code; e quasi ogni sera, in media, Callas, De Sabata, Karajan, Schwarzkopf, Visconti, Strehler. Certamente si andava al Piccolo Teatro e alle grandi riviste, oltre che ai Pomeriggi Musicali e alle grandi compagnie di prosa.
Così, naturalmente, si veniva apposta per il Nouveau Réalisme e il Parco Lambro e talune mostre importanti in via Manzoni o S. Andrea. Ma si ricorda soprattutto un indimenticabile Wozzeck, alla Scala nel 1952. Fu interrotto quasi subito dalle proteste. Non per la musica di Berg, come fu scritto. Ma perché Tito Gobbi, bell’uomo adorato dalle signore che l’ammiravano come Scarpia («e quella cretina della Tosca preferisce quel panzùn del tenùr»), era vestito da poveraccio. Ricordo bene che Dimitri Mitropoulos fermò l’opera chiedendo al pubblico «lasciateci lavorare», e a quella magica parola i milanesi s’azzittirono. Però le signore continuarono a protestare: «Vergogna! Vergogna alla Scala! Vestì un inscì bel omm cuma un barbùn!». Ma del resto, quando Visconti non mise la parrucca da vecchio al giovane aitante baritono Bastianini, e la Traviata-Callas prevedibilmente trasalì vedendo un vecchio genitor così fresco, ho sentito un flemmatico marito: «tranquila, l’averà conosüda quand lé l’era ancamò in casìn».
Alberto Arbasino