Fulvio Contorti, Corriere della Sera 15/07/2012, 15 luglio 2012
DI CHI E’ (DAVVERO) LA COLPA DELLO SPREAD?
Reato di lesa maestà: così appare la reazione indignata del Governo alle critiche rivoltegli domenica scorsa dal presidente degli industriali. Venti anni fa, in un altro contesto critico, Marco Borsa etichettò questo tipo di comportamento come «incomprensibile con il funzionamento di una moderna democrazia»; ragione da vendere. È vero che siamo in guerra aperta «contro» i mercati, ma è anche vero che conosciamo bene la natura di chi li muove. Non si tratta di sprovveduti, ma di finanzieri di alto rango, supportati da eserciti di analisti e di operatori di cui stiamo apprezzando in questi giorni le abilità manipolatorie. Se c’è un aspetto che dobbiamo invidiare alla società americana è la «democrazia» delle idee e delle opinioni e della assoluta libertà di esprimerle. Paul Krugman e Richard Layard nel loro «manifesto» hanno parlato di big mistake nelle politiche americane e non solo: nessuna lesa maestà, ma più di 8.000 economisti hanno aderito in meno di due settimane.
Martedì scorso l’Istat ha pubblicato l’indice della produzione industriale di maggio, in aumento dello 0,8% su aprile; ma in contemporanea la Confindustria ha spento gli entusiasmi con un -1,3% previsto per giugno: non per dispetto, ma per storica consuetudine su un indice che essa stessa ha inventato. Dovremmo accusarla di disfattismo? Il presidente degli industriali italiani ha influito sullo spread con il suo sonoro richiamo? Il giorno prima era a 4,7 punti percentuali, il giorno dopo a 4,8 punti e il giorno successivo a 4,6 punti: sembra che i mercati la pensino come lui. Essi decidono lo spread osservando lo stock del nostro debito pubblico che quest’anno ha varcato il massimo di ogni tempo, oltre il 123% del Pil: meglio dirlo sottovoce sperando ingenuamente che nessuno se ne accorga? Il governatore Visco ha spiegato domenica scorsa su questo giornale che i tre quinti dello spread non sono nostra colpa, ma del premio al rischio che l’euro salti: e, dunque, che l’Italia, vaso di coccio, ne faccia le spese più degli altri. Ma la nostra fragilità è sempre figlia del debito e il premio al rischio resterà una costante poiché i Paesi forti non hanno alcuna voglia di pagare i debiti dei deboli. Ostano la costituzione tedesca (ma perché noi riformiamo la nostra Costituzione e la Germania no?) e la pressione degli operatori sui Paesi deboli per spuntare guadagni dalla dissoluzione dell’euro. Operatori che debbono far fruttare le montagne di denari loro affidati (5.000 miliardi di dollari nei soli fondi sovrani al marzo scorso), inventandosi sempre nuovi modi per farli «ridere», come Marcello De Cecco commentò in un’audizione parlamentare nel 2000.
Il presidente Monti ha ragione nel dolersi del trattamento che i mercati ci riservano. Se escludiamo la Svezia, dove il rapporto tra debito e Pil è al 38% con finanze pubbliche in avanzo (2011), in tutti gli altri Paesi il debito è tale da escludere la solvibilità dell’emittente in caso di mancati rinnovi alle scadenze. La «salute» può essere misurata anche in base alla dimensione del fabbisogno annuo rispetto al debito accumulato. In tale rapporto l’Italia figura quasi in coda, mentre stanno in bella vista, nell’ordine, Regno Unito, Olanda e Francia. Se dunque lo spread italiano è così alto, la colpa non è degli industriali, ma della montagna del debito e della politica di eccessiva austerità condotta dal governo: alimenta le scommesse sulla nostra fragilità senza incidere in misura efficace sullo stock di debito. Non diamo la colpa all’euro perché ci ha portato bene: la ricchezza delle famiglie italiane è salita del 57% dal 1999 al 2008 (anno di massimo); in rapporto al debito pubblico è passata da 4,3 a 5,2 volte; ma i mercati stanno sforbiciando e oggi siamo a 4,6 volte.
Fulvio Coltorti