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 2012  luglio 16 Lunedì calendario

Insieme a Georg Baselitz e Anselm Kiefer, Gerhard Richter forma la grande triade dei pittori tedeschi contemporanei più celebrati e più quotati a livello mondiale

Insieme a Georg Baselitz e Anselm Kiefer, Gerhard Richter forma la grande triade dei pittori tedeschi contemporanei più celebrati e più quotati a livello mondiale. Ma mentre l’opera dei primi due sembra tendenzialmente avviata a una nobile storicizzazione, quella di Richter, che continua a influenzare moltissimi artisti delle nuove generazioni, rimane decisamente attuale. E la magnifica retrospettiva che il Centre Pompidou (in collaborazione con la Tate Modern di Londra e la Nationalgalerie di Berlino) gli dedica per festeggiare i suoi ottant’anni, lo dimostra in modo evidente. Attraverso la messa in scena di centocinquanta lavori, scelti con estrema cura, l’esposizione propone una lettura cronologica e tematica di tutte le principali fasi di ricerca dell’artista, dall’inizio degli Anni 60 ad oggi. A prima vista l’effetto complessivo è, per il pubblico che non conosce Richter, abbastanza sconcertante perché ci si trova davanti a un panorama di pittura che risulta piuttosto eclettico. Ci sono quadri realistici di esplicita matrice fotografica che rappresentano ritratti, oggetti, vedute urbane e paesaggi, anche con valenze sociali politiche o con riferimenti ai generi della grande tradizione artistica. E poi dipinti di dimensioni spesso imponenti di carattere informale e gestuale oppure minimalista con connotazioni rigorosamente monocrome. E non mancano alcune sculture sempre minimaliste fatte con lastre di vetro. Nel percorso espositivo le sale figurative e quelle astratte si alternano e dialogano fra loro senza nette separazioni. La mostra, non a caso di intitola «Panorama», perchè la ricerca di Richter è una straordinaria avventura sperimentale tesa a verificare in varie direzioni fondamentali, le possibilità che ha oggi la pittura per continuare a esistere e ad avere un senso autentico come specifico campo autonomo di creazione. Con una particolare attitudine spiazzante, con una fredda tensione analitica, ma allo stesso tempo sempre con una passione emotiva e sociale non apparente ma profonda, l’artista ha affrontato fin dall’inizio la questione cruciale del rapporto fra immagine e realtà ad ogni livello. Una certa parte della critica lo ha, superficialmente, accusato di essere un pittore che usa con abilità e furbizia trucchi e artifici tecnici e strategie operative differenti divertendosi a discreditare tutte le convenzioni iconografiche. Ma, come ha giustamente notato Benjamin Bochloh, il merito di Richter è quello di mettere in gioco il dilemma della pittura del ‘900 e cioè l’antagonismo fra la funzione di descrizione e quella dell’autoriflessione. Nei suoi quadri le due funzioni coesistono, ma appaiono per molti versi contrapposte come per mostrare (o dimostrare) la loro sempre relativa adeguatezza. «Io non obbedisco ad alcuna intenzione, ad alcun siste- Betty è un lavoro di Gerhard Richter del 1991, in cui l’artista riprende la figlia che era già stata al centro di un suo precedente lavoro del 1977. Sopra Tante Marianne (Zia Marianna) un dipinto su base fotografica del 1965. Nelle sue sperimentazioni l’artista tedesca si interroga sul rapporto tra fotografia e pittura e sul senso che quest’ultima oggi possa avere ma, ad alcuna tendenza; non ho nè un programma, né uno stile né pretese. Amo l’incertezza, l’infinito e l’insicurezza permanente». Se lo dice l’artista dobbiamo crederci, ma dopo aver visitato tutta la mostra ci si rende conto che, al di là delle varie «maniere», emerge una coerenza di ricerca nitida, uno «stile» Richter assolutamente inconfondibile fatto di rigore e sensibilità pittorica, di raffinatissimo distacco estetico e anche di una singolare vena romantica nascosta (che emerge più chiara nei lavori recenti) che ha a che fare con l’impossibile tensione verso l’assoluto e con melanconiche meditazioni sulla morte. In partenza Richter, è influenzato in particolare da Duchamp (tramite Beuys) e artisti pop come Lichtenstein e Warhol. Inizia a realizzare le sue prime foto-pitture nel 1964, come radicale operazione anti-artistica: sono riproduzioni dettagliate di foto in bianco e nero che però non sembrano copie perchè da subito le immagini dipinte vengono sfocate passando un pennello secco sul colore fresco. L’effetto è inedito e la realtà appare come attraverso un filtro straniante. Ritratti di persone qualunque (anche familiari) e di personaggi pubblici, oggetti come sedie o rotoli di carta igienica, o anche modelli diversi di aerei, e tetri paesaggi urbani sono i temi più direttamente realistici della prima fase. Ma subito dopo ecco una sala con riferimenti alla storia dell’arte: da un lato un ritratto a colori della prima moglie Ema che scende nuda le scale (1966) e una fredda costruzione minimalista con vetri (1967) come «omaggio» a Duchamp; e dall’altro una Annunciazione d’après Tiziano e dei grandi quadri solo con nuvole e marine (1970-73). E poi troviamo le sale con le gigantesche pitture astratte, degli Anni 80 e 90, caratterizzate da stratificazioni, colature, striature, e larghe tracce, con spessi impasti cromatici freddi e stridenti. I quadri sono realizzati con grandi pennellesse, e con assi o specie di pettini per spazzare e grattare le superfici. Lasciando seccare i vari strati prima degli interventi successivi l’artista arriva a creare spazialità sovrapposte e un inquietante effetto di «congelamento» dell’energia gestuale. Emerge così in modo evidente l’anima stessa del processo pittorico. Subito dopo ritorna la foto-pittura in bianconero con la tragica e inquietante serie (del 1988) dedicata ai terroristi della Baader-Meinhoff. E infine le opere recenti, con tenui velature colorate, che rappresentano una meditazione melanconica sull’arte classica: nature morte alla candela, paesaggi nella foschia e ritratti quasi vermeeriani. A ottant’anni si può ormai sognare di rientrare nella casa dei padri.