Leonardo Berberi, Corriere della Sera 16/7/2012, 16 luglio 2012
Da un lato i dati sulla disoccupazione giovanile: quasi quattro italiani su dieci tra 15 e 24 anni senza un impiego
Da un lato i dati sulla disoccupazione giovanile: quasi quattro italiani su dieci tra 15 e 24 anni senza un impiego. E buona parte con una laurea in tasca. Dall’altro, i dati della Cgia di Mestre: 385 mila posti di lavoro «ad alta intensità manuale» che nei prossimi otto anni potrebbero non essere coperti. A cui si aggiungono i 45 mila rimasti vacanti nel 2011 perché i giovani, quelli fino a 29 anni, o non si sono fatti avanti oppure sono stati ritenuti non all’altezza della mansione. Una combinazione che, nel 2020, potrebbe portarci a una situazione paradossale: trovare un fabbro per farsi aggiustare gli infissi o un falegname per intervenire su un mobile di casa potrebbe diventare difficilissimo. E con costi, logistici ed economici, elevati. A leggere i dati e le stime il lavoro c’è. E anche tanto. È solo che è «manuale». Un aspetto che pesa molto sulle scelte formative dei ragazzi. «Nel nostro Paese le professioni manuali sono state sempre poco considerate, direi quasi che sono state sempre svalutate», spiega Franco Donzelli, direttore del dipartimento di Economia, management e metodi quantitativi dell’università Statale di Milano. «Così, negli anni, abbiamo preferito investire sul pensiero e ora eccoci qui con posti che restano vacanti negli stessi mesi in cui i nostri figli cercano un lavoro». Una politica che non è stata seguita in altri Paesi europei. «In Germania e Olanda — continua Donzelli — oltre all’università ci sono tante scuole di formazione superiore. Da noi no». Una sorta di «stigma» sociale verso queste professioni che il docente sintetizza con il «peso» delle buste paga: «Se un operaio specializzato in Italia guadagna, se va bene, 1.400 euro — racconta —, il collega tedesco, per la stessa mansione, ne prende 2.500». E, oltre all’aspetto economico, c’è anche una differente percezione dei lavori manuali nei due Paesi. «È ovvio che nessuno è incentivato a scegliere questo percorso», sintetizza Donzelli. «Né i genitori che devono aiutare i figli a scegliersi il futuro dopo le scuole superiori, né gli insegnanti, né gli stessi giovani». Così eccoci al «buco» del 2020. Quando rischiano di mancare pellettieri, borsettieri, falegnami, muratori, carpentieri, carrozzieri, saldatori, riparatori di orologi, elettricisti, parchettisti. Ruoli che i giovani potrebbero coprire in brevissimo tempo e invece non lo fanno. E se alcuni mestieri vengono mitigati dall’«effetto sostituzione» degli immigrati, altri rischiano proprio di sparire. Anche quelli che caratterizzano il «Made in Italy». «Il fatto è che i ragazzi oggi non conoscono l’artigianato», spiega Alberto Cavalli, direttore generale della Fondazione Cologni dei mestieri d’arte di Milano. «Quando vengo chiamato a fare lezione mi accorgo che spesso ignorano l’esistenza di certe professioni vitali per la nostra economia». Qualcosa, certo, si sta muovendo, «ma a differenza della Francia, dove è tutto regolamentato, da noi l’organizzazione è demandata alle regioni». Una via d’uscita? «Deve cambiare la mentalità», risponde il professor Donzelli. Mentre Alberto Cavalli suggerisce «meno burocrazia, più comunicazione tra scuola e mondo delle imprese e, soprattutto, più attenzione all’orientamento». Leonard Berberi