Gianluca Veneziani, Libero 13/7/2012, 13 luglio 2012
L’IMPORTANZA DI CHIAMARSI «DI OSCAR»
Non ci sono solo i presunti disegni di Caravaggio. Anche le opere letterarie possono avere una paternità incerta. È il caso di Teleny, romanzo erotico a lungo attribuito a Oscar Wilde, ora ripubblicato da ES (pp. 218, euro 21). Il libro, edito per la prima volta nel 1893, uscì senza nome dell’autore e con quello dell’editore camuffato (si faceva chiamare Cosmopoli anziché Smithers), in tiratura semi-clandestina e limitata (ne vennero pubblicate solo 200 copie). Inoltre, per evitare la censura in Inghilterra, visti i contenuti scabrosi, Teleny o Il rovescio della medaglia – così recitava il titolo per intero – venne distribuito in Francia.
Per più di vent’anni l’opera rimase, come avverte Franco Cuomo nella postfazione, un «anonimo vittoriano», di difficile attribuzione. A gettare i primi sospetti che il libro fosse frutto del genio di Oscar Wilde fu un bizzarro libraio, un certo Charles Henry Hirsch, francese d’origine, nonostante l’evidente nome inglese. Francese era pure la libreria – chiamata Librairie Parisienne – che Hirsch aveva impiantato a Londra, quartiere Soho, dove Wilde era solito recarsi in cerca di raffinatezze letterarie o di romanzi pornografici. Proprio lì pare che uno degli amici dello scrittore irlandese avesse consegnato il manoscritto del romanzo tre anni prima che venisse pubblicato.
Maestro e discepoli
Questa circostanza viene ricordata da Hirsch nell’edizione inglese di Teleny del 1934 (una versione integrale, senza censura), in cui l’opera è definita un lavoro a più mani, ispirato e supervisionato da Wilde stesso, che avrebbe figurato nella stesura come «un Maestro circondato da discepoli». I collaboratori sarebbero stati autori vicini a Wilde nella vita professionale e non solo, come Beardsley, Beerbohm, Sikert e Lane.
In effetti, leggendo il libro che narra dell’amore omoerotico tra il giovane Camille Des Grieux e il musicista ungherese René Teleny (che la storia abbia ispirato anche “Morte a Venezia” di Visconti?), emergono alcuni passaggi tipicamente wildiani. Come quelli caratterizzati da frasi a effetto e aforismi fulminanti. Lo testimoniano alcuni scambi di battute: «Niente rende più superstiziosi del vizio». «O dell’ignoranza?». «Be’, ma è un altro genere di superstizione». Oppure momenti lirici, che evocano il ricordo di figure classiche: «Dove le acque del Nilo scorrono lentamente, l’imperatore Adriano, inconsolabile, piangeva ardentemente l’amato perduto per sempre, il bellissimo schiavo greco Antinoo»; o piuttosto descrivono l’amore alla maniera catulliana. «Avevo le labbra secche, il respiro affannoso, le membra rigide, le vene gonfie».
Altre volte, invece, il romanzo sembra un Harmony di bassa lega, indulgendo gratuitamente a scene di amore carnale, descritte fin nel dettaglio, con uno stile morboso che nulla ha da spartire con la poesia, semmai con la pornografia. «Piombò su di lei con la pesantezza di un toro; con un colpo di reni il glande penetrò nelle labbra; con un altro colpo lo mandò più avanti. E senza preoccuparsi del male che le faceva, il suo priapo penetrò nelle profondità della vagina e scomparve del tutto».
I critici e gli editori hanno a lungo sostenuto la tesi della matrice incerta, o quanto meno collettiva, del romanzo. Nell’edizione inglese del 1976, il nome di Oscar Wilde campeggiava per la prima volta in copertina, ma con accanto un punto interrogativo. Nella edizione italiana della ES del 1980 e in quelle successive, il libro indicava come autori «Oscar Wilde e altri».
La novità dell’edizione del 2012, invece, è che l’opera reca in copertina la scritta «Oscar Wilde (attribuito)». Sembra insomma farsi strada l’idea di una paternità esclusiva di Wilde rispetto all’opera. Diversi segnali sembrerebbero confermarlo. Da un lato la sovrapposizione tra la stesura del romanzo e il periodo di vita affrontato dallo scrittore. «La scrittura di Teleny», ricorda Franco Cuomo, «coincide con il momento in cui Oscar Wilde diventa risolutamente misogino e deride gli amici che hanno rapporti con le donne chiamandoli mulierasti».
«In tre sole copie»
In secondo luogo, ci sarebbe lo stretto rapporto di amicizia tra lo scrittore e il primo editore del libro, Leonard Smithers. Amante delle pubblicazioni oscene, Smithers «si vantava di non aver mai pubblicato un libro utile o edificante, ma solo cose di cui gli altri hanno paura ». Peccato poi che lui stesso avesse avuto paura, pubblicando la prima edizione del libro sotto falso nome. Ma la cautela non era eccessiva visto che, come gli aveva ironicamente predetto lo stesso Wilde, Smithers avrebbe finito «per pubblicare edizioni di tre sole copie, una per l’autore, una per se stesso, una per la polizia». E con la polizia ebbe realmente a che fare quando nel 1900, lo stesso anno della morte di Wilde, l’editore fallì.
I due eventi, la scomparsa dello scrittore e quella della casa editrice, probabilmente cambiarono il destino del romanzo. Smithers, costretto a chiudere baracca, stava già lavorando a una seconda edizione del libro, in cui non è da escludere che Wilde comparisse come autore. L’editore, che fino all’ultimo assisté il genio irlandese, ebbe però almeno l’accortezza di morire come un personaggio del romanzo, in perfetto stile wildiano. Se ne andò nel 1907, durante un’orgia, stroncato da una mistura di droga e liquore. Con sé portò nella tomba il segreto su un libro che lui stesso definiva un capolavoro, alcuni critici chiamano ancora una «porcata», e tanti lettori continuano a ritenere un mistero.
Gianluca Veneziani