FRANCESCA PACI, La Stampa 13/7/2012, 13 luglio 2012
DalcalcioaValentino shoppingglobale dell’emirodelQatar - A vedere oggi il brand Qatar furoreggiare dalla maison Valentino alla Miramax, dal quartiere londinese Canary Wharf alla Costa Smeralda passando per il Paris Saint Germain Football Club e i magazzini Harrods, sembra impossibile che solo dieci anni fa il piccolo ancorché facoltoso emirato mediorientale fosse noto quasi esclusivamente per essere sede di al Jazeera, la prima tv satellitare araba nata nel 1996 ma ammessa al rango dei grandi network internazionali dopo l’11 settembre 2001
DalcalcioaValentino shoppingglobale dell’emirodelQatar - A vedere oggi il brand Qatar furoreggiare dalla maison Valentino alla Miramax, dal quartiere londinese Canary Wharf alla Costa Smeralda passando per il Paris Saint Germain Football Club e i magazzini Harrods, sembra impossibile che solo dieci anni fa il piccolo ancorché facoltoso emirato mediorientale fosse noto quasi esclusivamente per essere sede di al Jazeera, la prima tv satellitare araba nata nel 1996 ma ammessa al rango dei grandi network internazionali dopo l’11 settembre 2001. All’epoca lo sceicco Hamad bin Khalifa Al Thani, salito al trono nel 1995 grazie a un golpe incruento contro il padre, non aveva ancora lanciato la sua Qatar National Vision 2030 e l’ex presidente egiziano Mubarak poteva permettersi di concludere la visita a Doha commentando scetticamente «Tanto rumore per questa scatoletta di fiammiferi?». Grazie al petrolio e alla terza riserva mondiale di gas scoperta nel ’97, la «scatoletta» grande come l’Abruzzo non è solo sopravvissuta al Faraone, ma vanta una crescita economica record del 16,6% e assicura a ciascuno dei suoi circa 280 mila abitanti indigeni (un settimo del totale) un patrimonio annuo di 65 mila euro che ne fa gli indiscussi Paperoni globali. La vulgata borsistica internazionale vuole che quando lo sceicco Hamad bin Jassim alThani, cugino dell’emiro nonché premier, ministro degli esteri e soprattutto responsabile del Qia (Qatar Investment Authority) decida di scendere in campo non ci siano argini. È così che l’ombra qatariota si è allungata pian piano sul 17% della Volkswagen, il 20% della Borsa londinese, una quota del la Barclays, il grattacielo di Renzo Piano The Shard, l’Hotel Gallia di Milano e una rosa di squadre di calcio, dal Paris Saint-Germain al Malaga, messe in scuderia in attesa di ospitare a Doha il Mondiale 2022, il primo disputato in un Paese arabo. Eppure, a giudicare dall’attivismo dell’emirato dietro le quinte della primavera araba (in sostegno di tutte le rivoluzioni tranne quella del Bahrein e la propria, prevenuta con un aumento degli stipendi del 60%), l’ambizione non si limita all’economia. Il Qatar cerca il «soft power», sostengono gli studiosi. Un’assicurazione sulla vita per quando il petrolio finirà che spazia dal miliardo di dollari speso negli ultimi sette anni in opere d’arte (da Cezanne a Bacon, da Rothko a Damien Hirst) all’industria mediatica (si parla di un interesse per La7) fino al mercato delle anime affidato ai telepredicatori islamici come il controverso al Qaradawi, il primo a guidare la preghiera del venerdì nella piazza Tahrir post Mubarak. «Giunto al potere grazie a un golpe, l’emiro era ansioso di sviluppare un’immagine positiva e liberale per consolidare il suo regime», nota il direttore del Royal United Services Institute David Roberts, spiegando su Foreign Affairs l’imporsi del Qatar sulla scena regionale. A lungo la politica estera di Doha ha seguito il modello turco del «zero problems» con i vicini ritagliandosi piuttosto il ruolo di paciere, come nella mediazione tra il governo yemenita e i ribelli Houthi o in Darfur. Poi, con il risveglio arabo del 2011, il salto di qualità, la svolta «creativa» come la definisce l’analista Shadi Hamid: il finanziamento dei Fratelli Musulmani tunisini, la partecipazione alla missione Nato in Libia e un sostegno così militante all’opposizione siriana da porre il Qatar in cima alla lista nera dei Paesi che Assad accusa di fomentare la guerra civile. «C’è molta differenza tra le aspirazioni internazionali e la mentalità provinciale del Qatar dove oltre il lavoro non c’è nulla: i rapporti sociali sono tribali ed escludono gli stranieri, le donne sono avvolte nell’abaya nera, un bicchiere di vino costa 20 euro», racconta l’impiegato occidentale di una multinazionale. L’emirato compreso tra Arabia Saudita e Iran, in cui convivono una mega base aerea americana, l’ufficio dei talebani e di Hamas, la Georgetown University e, fino all’operazione del 2007 a Gaza, perfino un’agenzia commerciale israeliana, professa e diffonde un rigido islam wahabita. C’è il Corano nel motore del «soft power» qatariota, come temono i liberal locali? O la mano di Washington denunciata dagli imam? La Storia in diretta va in onda su al Jazeera.