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 2012  luglio 13 Venerdì calendario

Viaggiare in salotto con Monti capotreno - Stazione Centrale, marciapiede numero nove. L’ES 9615 di Trenitalia parte per Roma con quattro minuti di ritardo, ac­cumulati nella tratta Torino- Milano

Viaggiare in salotto con Monti capotreno - Stazione Centrale, marciapiede numero nove. L’ES 9615 di Trenitalia parte per Roma con quattro minuti di ritardo, ac­cumulati nella tratta Torino- Milano. Da qual­che mese su molti treni Eurostar non ci sono più solo due classi, come in tutti gli altri treni, bensì quattro: Standard, Premium, Business ed Executive. In questa parte del mio itinerario, quella che va da Milano a Roma, viaggerò in Executi­ve, costo del biglietto duecento euro tondi, che però comprendono diversi servizi esclusi­vi. Inoltre duecento euro dovrebbero rendere inutile la presenza di un capotreno (si fa per ri­dere) visto che per duecento euro tutto do­vrebbe andare bene, tutto è obbligato ad anda­re bene, niente Eurostar persi nella torrida op­pure gelida campagna romana o lodigiana, fermi come la Sfinge di Giza in attesa del cosid­detto materiale di ricambio, tra svenimenti, assenza cronica di informazioni e bottigliette d’acqua, appuntamenti persi. La classe Execu­tive occupa la prima metà della carrozza nu­mero uno ed è composta da otto poltrone vera­mente sontuose più una specie di salottino con sei poltroncine in fintapelle rosso tra il mattone e il magen­ta ( un po’ meno bril­lante del rosso-Eu­rostar) sistemate in­torno a un tavolo pieghevole mu­nito di conso­le per q­ualsi­asi equipag­giamento multime­diale, che, aperto, dà al salotti­no l’aspet­to di una piccola sa­la- riunioni. Immagino che qui si svol­gano solita­mente importanti sedute di questo o quel cda: Rai, Banca Intesa, Eni, a scelta. Oppure il Consiglio dei mini­stri. L’uomo executive infatti è sem­pre executive , anche in treno. Per questo la classe Executive si presen­ta comoda ma al tempo stesso tutta modellata intorno alle esigenze di chi fa girare la finanza, l’economia, il mondo. Qui siedono i bosoni di Wiggs della società italiana, che le infondono energia e massa. Oggi però in Executive non c’è nessuno, nessuna riunione di con­siglio in programma. Nessuno sal­verà l’Italia da questa postazione. Ci sono soltanto io, e la saletta riu­nioni è tutta per me. Avrei preferito starmene seduto sulla mia poltro­na. Sono poltrone degne del re di Andromeda, in fintapelle color fu­mo di Londra, disposte a distanza siderale le une dalle altre e munite, oltre che di una serie di pulsanti che emanano una luce di un blu cu­raçao perlaceo, di un poggiapiedi che ci augura il buon riposo solo a guardarlo. Purtroppo la distanza tra sedile e tavolinetto estraibile non è siderale ma intermolecolare, e uno con la mia panza non lo può usare. Del resto, penso tra me, io non sono affatto un uomo executi­ve , non reggo le sorti dell’Italia e, a differenza dei veri uomini executi­ve , non frequento assiduamente la palestra. Chi regge le sorti dell’Italia deve essere infatti fisicamente molto in forma, non può permettersi alcun sovrappeso o addizionale Irpef per il proprio colesterolo o scatto di ali­quota per i propri trigliceridi. E la di­stanza tra la seduta delle poltronci­ne Executive e l’allegato tavolinet­to è stata tarata, probabilmente, su questa precisa tipologia umana. Eccomi perciò costretto in sala­riunioni. Il mio assistente di viag­gio, diciamo pure il mio steward, fi­no a Roma si dedicherà soprattutto al sottoscritto, l’unico per oggi, su questo 9615, a disporre di biglietto da duecento euro. È un uomo alto e brizzolato e somiglia a Mario Mon­ti, con la differenza che qualche vol­ta sorride. Poco dopo la partenza, Monti mi propone una bella spre­muta fresca d’arancia. Poi, veden­domi ben sistemato al mio tavolo di lavoro, rilancia l’offerta: vassoietto completo con prima colazione fir­mata da Gianfranco Vissani. «Gian­franco » per la verità è una mia illa­zione, perché la fascetta che avvol­ge il pregiato tovagliolo in puro co­tone grezzo by Bellora, Milano (sin­ce 1883) reca solo la scritta «Vissa­ni », e a giudicare dal contenuto del vassoietto servitomi dal gentilissi­mo Monti viene da pensare che Gianfranco Vissani potrebbe an­che avere un fratello molto meno ta­lentuoso, per esempio un Ermene­gildo Vissani, o un Aureliano Vissa­ni, che si sia assunto- magari all’in­saputa del celebre fratello (cui i ta­volinetti estraibili dell’Executive sa­rebbero vietati, come lo sono a me) - l’incarico, con relativo contratto, di presentare a Trenitalia un proget­to di Vassoietto Imbandito. Ahi, Vissani tarocco, quanto fai penare noi, popolo della classe Exe­cutive! Ahi Aureliano, ahi Ermene­gildo, ahi Odescalco, ahi Braba­zio Vissani! Eccovi cari lettori la composizio­ne­del vasso­ietto, o vissa­ietto, così po­trete capire la costerna­zione di noi miseri due­centisti. Ab­biamo: una spremuta d’arancia caldina; una confezione in vitro di Yoghurt marca «Sterzing-Vipiteno»; un paninetto al latte, freddo; un bicchierino modello fin­ger- food con dentro del burro ghiacciato; tre focaccine con gocce di cioccolato, così gnucche da non riuscire, nonostante lo sforzo con­giunto di tutti i muscoli del collo, a superare il confine tra laringe ed esofago; una coppetta con un’albi­cocca, una ciliegia e tre chicchi d’uva. Nel vassoietto c’è anche una pic­cola rosa rossa un po’ smortina, av­volta alla base dello stelo con la tipi­ca carta stagnola, distintivo incon­fondibile di tutti quegli indiani che tirano a campare vendendo rose rosse nei ristoranti o all’uscita degli stessi o dovunque due o più perso­ne si trovino, ferme, sul marciapie­de, a parlare. Mesi fa ne vidi uno tentare di ven­dere questo stesso tipo di rose a un prete mentre benediceva una bara davanti a una chiesa. Gli cacciava il mazzo tra naso e turibolo, incuran­te della vedova in gramaglie, dei fi­gli con gli occhiali neri e del carro Mercedes color azzurro-tinca, che secondo i tecnici Mercedes, non di­giuni di teologia, è il colore del para­diso. Intanto, fuori di qui c’è la Tosca­na con il suo paesaggio incompara­bile, frutto di una collaborazione eccezionale tra Dio e l’uomo. Os­servo i casali, i vigneti, gli olivi e i ci­pressi correre disperatamente via da me, «le convalli/ popolate di ca­se e d’uliveti» scappano lontano, nemmeno il tempo di imprimersi sulla retina, e le viottole che serpeg­giano sui crinali delle colline, con i loro trattori e i loro motorini, la­sciano in me un triste senso di sepa­ratezza. Ricordo i miei viaggi da ragazzo, su treni molto più lenti e scomodi, ma dove si potevano aprire i fine­strini, l’aria del mondo circostante poteva entrare nella carrozza, così che tra il «dentro» e il «fuori» si stabi­liva un rapporto, il treno era dentro il paesaggio, parte di esso, alla stre­gua dei gelsi e dei pioppi, de’ colli e de’ tetti. Mi rendo conto, però, che un viaggio lungo la dorsale italiana, da Milano a Napoli, non sarebbe più veritiero. L’Italia di oggi è scrit­ta qui, in questa separatezza, in que­sto treno che corre dentro un tun­nel talvolta reale talvolta virtuale, che c’impedisce, ammirando un ca­sale toscano, di dire «io sono qui», o di telefonare a nostra moglie e dirle «ti mando un bacio dalla Toscana», perché in realtà noi non siamo mai in Toscana, nel Lazio o in Emilia, ma soltanto dentro un lunghissi­mo tunnel. La verità sta qui, in questo treno dove il biglietto Milano-Roma può costare anche duecento euro (e non è nemmeno caro rispetto agli standard europei), dove un salotti­no scimmiotta le sale- riunioni e do­ve il sosia di Vissani firma vassoietti con panini gelidi, dolcetti imman­giabili, burro ghiacciato e rose ros­se appassite. Questo è il luogo destinato a tutti coloro che sono sempre connessi, sempre in riunione, sempre in vide­oconferenza, sempre in procinto di prendere decisioni importanti. Per­ché non importa con chi ti connetti e perché, non importa se decidi il destino dell’Italia o soltanto quello dell’eroe del tuo videogioco, o del tuo avversario di poker online, ciò che importa è che tu sia connesso, sempre e comunque. Sul modello di questa malattia antropologica prende forma questo treno malato. E il cuore mi si riempie di strazio per tutta la bellezza che sembra vo­ler fuggire via, lontano.