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 2012  luglio 13 Venerdì calendario

I MEDICI DEVONO CHIEDERE PERDONO

Medici e pazienti. Leader politici e star di Hollywood. Anziani e bambini. All’epoca delle guerre persiane e dopo la codifica del genoma. Attraversando le oltre 700 pagine del libro di Siddhartha Mukherjee, si incontrano persone lontanissime nel tempo e nello spazio. In comune hanno solo una cosa, che in un modo o nell’altro li lega anche a ogni lettore: tutti hanno dovuto imparare cos’è il cancro. Molti ne sono rimasti uccisi, altri hanno visto morire i loro cari, altri ancora hanno dedicato la vita a combatterlo. Alcuni, sempre di più, sono guariti. La testimonianza più antica risale a un papiro egizio datato attorno al 2600 avanti Cristo: lo scriba Imothep descrive nei dettagli un malato colpito da un «rigonfiamento sul petto grosso, diffuso e duro». Nel paragrafo intitolato «Terapia» si legge una sola parola: «Nessuna».
Oggi Mukherjee, oncologo alla Columbia University, elabora ogni giorno nuove terapie. «Perché ogni tumore è diverso dagli altri, e richiede una cura specifica. Una risposta valida per tutti oggi non c’è, e forse non può esserci». Nato a Nuova Delhi nel 1970, laureato a Stanford e specializzato a Harvard, con L’imperatore del male (Neri Pozza) l’anno scorso ha vinto il Pulitzer per la saggistica. Sottotitolo: «Una biografia del cancro». Non è un libro scientifico né di storia della medicina, ma un grande racconto collettivo. «Un racconto semplice, onesto, veritiero. Senza false speranze. Perché la conoscenza è il modo migliore per superare la paura». Enorme, in questa lunga storia, è stato il merito di due «geniali pionieri italiani», Gianni Bonadonna e Umberto Veronesi, capaci di «combinare le due armi che oggi abbiamo a disposizione nella battaglia: la chirurgia e la chemioterapia», prima considerate alternative inconciliabili.
Il suo libro però non è dedicato a un luminare, ma a un bambino. «A Robert Sandler (1945-1948), e a quelli che sono venuti prima e dopo di lui». Chi era Robert Sandler?
«Fu uno dei primi malati di leucemia ad essere curato con l’aminopterina, un farmaco chemioterapico allora rivoluzionario. Nei primi mesi di trattamento il piccolo ebbe una reazione straordinaria, sembrava davvero sulla via della guarigione definitiva. All’improvviso, nel giro di poche settimane si aggravò in modo fulminante, fino alla morte. La sua storia mi ha insegnato molte cose. La vita di Robert è stata così breve, apparentemente segnata soltanto dal dolore, eppure in qualche modo penso sia stata una vita straordinaria, davvero degna di essere vissuta. Lo studio della sua vicenda clinica, inoltre, segnò una tappa fondamentale per lo sviluppo della medicina: era la prima volta che contro la leucemia si usava una sostanza chimica; oggi è la cura più diffusa. Inoltre ho scoperto che Robert aveva un fratello gemello, perfettamente sano. Due gemelli omozigoti hanno geni identici: eppure il caso, attraverso un semplice errore genetico, può decidere tra la vita e la morte».
Oggi Robert Sandler avrebbe 67 anni. Ha mai pensato a cosa sarà successo a suo fratello?
«Poche settimane dopo l’uscita del mio libro, ero di turno in ospedale, ho ricevuto una telefonata. Era Elliot Sandler, il gemello di Robert. Qualche tempo dopo ci siamo dati appuntamento a New York, vicino a Times Square. Appena l’ho visto avvicinarsi, l’ho riconosciuto: in realtà, io quel volto rotondo e brillante la conoscevo benissimo».
La storia del cancro spesso è una storia di donne. Una donna è la prima malata di cui ci è stato tramandato il nome: Atossa, regina di Persia e moglie di Dario il Grande. Racconta Erodoto che quando scoprì di avere un «onkos», una massa compatta nel suo seno, Atossa decise di abbandonare per sempre la corte, e di restare sola. Erodoto non si preoccupa nemmeno di raccontarci come morì.
«È un episodio che riassume perfettamente uno dei sintomi più violenti di questa malattia: la vergogna. Oltre 2500 anni dopo, negli Stati Uniti dei primi anni Cinquanta, il "New York Times" rifiutò di pubblicare l’annuncio a pagamento di un gruppo di supporto per malate di cancro al seno. Sia la parola "cancro" sia "seno" furono giudicate impubblicabili: un giornalista propose di sostituirle con l’espressione "disturbi alla cassa toracica". Se oggi le cose sono radicalmente migliorate, il merito è proprio delle donne».
Il suo libro è pieno di donne eroiche. Come Mary Lasker, l’attivista che convinse il presidente Nixon a quadruplicare i fondi per la ricerca. O Rachel Carson, la biologa malata di cancro che ebbe il coraggio di rifiutare la mastectomia radicale, aprendo la strada a una chirurgia meno invasiva.
«Mary Lasker non era un medico, ma ha salvato più vite lei della maggioranza di noi. Rachel Carson — insieme alle giornaliste Betty Rollin e Rose Kushner, che condivisero e amplificarono la sua battaglia — diede una grande lezione di dignità e coraggio a una generazione di medici, che allora consideravano la chirurgia come l’unica possibilità, senza nemmeno considerare le implicazioni psicologiche. In generale, se si considera l’impegno civile speso negli ultimi decenni per combattere questa malattia — dalle raccolte fondi alle campagne di stampa — il contributo delle donne è stato nettamente superiore a quello degli uomini».
Negli ultimi decenni la lotta al cancro si è evoluta nelle terapie, ma anche nella prevenzione. Dopo il fumo, sono stati individuati molti altri fattori di rischio: l’alcol, un’alimentazione troppo ricca di grassi o di carne, l’abbronzatura. C’è chi mette in guardia perfino dall’uso del telefonino. Nelle librerie italiane è appena uscito un libro illustrato intitolato «La vera dieta anticancro in 100 ricette golose». Non si rischia una banalizzazione del male, e insieme una psicosi collettiva?
«Sì, questo è un grave effetto collaterale della prevenzione, che pure è un’arma fondamentale. Compito della medicina è quello di fornire ai cittadini un "reality check", cioè uno strumento per distinguere i fattori davvero scatenanti dalle bufale, dalle notizie pseudoscientifiche, dalle autoconvinzioni. Per inciso: possiamo continuare a usare il cellulare senza timori».
Quali sono i suoi primi tre consigli per ridurre il rischio di cancro?
«Smettere di fumare, smettere di fumare, smettere di fumare».
Quanto è importante la motivazione psicologica di un paziente per la sua guarigione?
«Nel mio libro, per definire cos’è il cancro, l’ho paragonato ai campi di concentramento descritti da Primo Levi: la cosa peggiore non è il male in sé, e nemmeno la morte, che in fondo è la conclusione comune a tutti gli uomini. La cosa peggiore del cancro è che ti priva del futuro, come un lager. Da quando viene diagnosticato, la vita del paziente si identifica totalmente con il tumore, diventa un labirinto di specchi. Penso che il medico abbia il dovere di aiutare il malato a uscire dal labirinto, a lottare comunque per un futuro. Ma se mi chiede se la tristezza o lo stress provocano il cancro, le rispondo che è una sciocchezza. Inoltre, conosco centinaia di pazienti coraggiosi, energici, motivati, che hanno perso la loro battaglia; e altrettanti più deboli, insicuri, pessimisti, che hanno reagito nel modo migliore alle terapie».
Percorrendo nel libro l’evoluzione delle terapie anticancro, colpisce un atteggiamento diffuso tra i medici: ognuno sembra convinto di poter arrivare alla cura perfetta, alla soluzione definitiva. Chirurghi e chemioterapisti per tutto il ’900 si sono scontrati, come avversari di partiti ideologicamente opposti. A volte, forse, fino a scordarsi dei pazienti.
«Ecco, questa è l’unica lezione che il mio libro vorrebbe dare ai medici: siate più umili. La medicina non è una scienza esatta ma umanistica, perché ha il compito di curare gli esseri umani, che sono ognuno diverso dall’altro. Di fronte al paziente, il medico avrebbe sempre il dovere di ammettere l’incertezza. Perché l’incertezza è la vera base della medicina».
In un film di Ingmar Bergman, «Il posto delle fragole», un grande medico a fine carriera sogna di rifare l’esame di Stato. Gli viene chiesto: qual è il primo dovere di un medico? Lui non sa rispondere. Eppure, insistono i commissari, è semplice: il primo dovere di un medico è chiedere perdono.
«Il mio libro è anche un modo per chiedere perdono, per quello che è accaduto in oltre quattromila anni di storia».
Paolo Beltramin