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 2012  luglio 13 Venerdì calendario

BELEN RODRIGUEZ


Il tempo dell’accaduto: 11 giugno 2012. Il luogo: una villa sulle colline di Hollywood, dorata di terrazza con piscina, affacciata su quel lastrico di stelle che è Los Angeles e di un bagno che è un loggione di cristallo da cui godersi lo spettacolo. La prospettiva viene messa a disposizione come set fotografico per una cifra giornaliera superiore ai duemila dollari. Perfino la ragazza incaricata di controllare che le condizioni vengano rispettate è una modella. Probabilmente più interessante di molte delle donne celebri che hanno posato su quello sfondo. Diventare famosi è un gioco con una sola regola: non vince il migliore. Il fotografo lo sa, perché le ha viste tutte. Douglas Kirkland ha 78 anni e una col- lezione di ritratti da museo delle dive. Ha scattato Marilyn Monroe una sera di novembre del 1961, avvolta in un lenzuolo che pretese di seta, Sophia Loren il giorno in cui scoprì di essere finalmente incinta, Audrey Hepburn quando si dimise da attrice per diventare donna. E adesso, Belén Rodriguez. Ha chiesto informazioni ai suoi amici italiani, prima di accettare. Dopo aver ascoltato le risposte, gli resta ancora una domanda: «Perché questa ossessione per Belén?». È quel che ho cercato di capire anch’io, portandola da Milano alla California. Alla partenza indossa occhiali scuri e dice: «Non chiamarmi col mio nome o la gente si accorge e impazzisce». All’arrivo in hotel ci sono già tre ospiti di nome Rodriguez e lei è soltanto l’ennesima complicazione per il centralinista. Gliela risolve in fretta, dieci minuti e ridiscende con i bagagli: la camera è rumorosa, cambia albergo. Questo coincide con l’immaginario che la vuole capricciosa, risoluta, ingovernabile. La realtà è un processo di adeguamento. La scorsa vigilia di Natale cenavo a un lungo tavolo e avevo di fronte un venditore di cucine. Raccontava che un giorno nel suo show-room gli è apparsa Belén. Non è entrata, “gli è apparsa”. Fa differenza. Il fenomeno ha comportato “vibrazioni”, “meraviglia” e “balbuzie”, corredo miracolistico della “presenza”. Sarebbe stato diverso se fosse stato un venditore d’auto americano e la cliente un’altra Miss Rodriguez? Si sarebbe ugualmente verificata quella laica transustanziazione che trasforma una donna nell’oggetto del desiderio di una nazione? Toglile gli effetti speciali, toglile il più straordinario degli effetti speciali, la dannazione, Marilyn resterebbe Marilyn o sarebbe soltanto un’altra Miss Jean? Vuoi paragonare Marilyn e Belén? Metto le cose in scala: l’Italia sta all’America come Marco Borriello a Joe Di Maggio, come le inconcludenti fanfaronate di Silvio Berlusconi stanno al tenero priapismo dei fratelli John e Robert Kennedy. Eliminate le proporzioni, resta il mistero dell’infatuazione popolare. Le vite non bastano e bisogna confonderle con le fantasie. All’incrocio tra le due cose abitano creature così materiali da perdere sostanza. Così vere da diventare un falso perfetto. Belén è una di queste. La sua biografia è una costruzione permanente. Qualunque cosa non le sia mai accaduta è credibile. Qualunque cosa le sia realmente accaduta è dubitabile. Belén aspetta un figlio. Se lo sarà inventato per attirare l’attenzione. Belén ha perso il figlio. Una mossa per provocare compassione. Belén lascia il compagno per il fidanzato di un’altra. Sarà una montatura pubblicitaria. Mentre l’aspetto al banco partenze di Linate vedo qualcuno sfogliare una rivista che annuncia in copertina: Belén va a Las Vegas per sposarsi. Quando arriva, ballando con le cuffie in testa, le indico il titolo: «Non è che sparisci appena atterriamo?». Alza le spalle: «Credano quel che vogliono». E questo fanno, di solito: credono quel che vogliono. La verità? Vi prego, non annoiatemi con questi dettagli. Perché, appunto, la verità è un dettaglio. È una frase detta a voce più bassa delle altre: «La prossima volta non dico niente fino al quinto mese». Oppure, è una reazione che non consente equivoci. Siamo ali aeroporto di Heathrow, scalo in attesa della coincidenza. Bivacchiamo nella lounge di British Airways. Belén si distende sul divano. Le scarpe da ginnastica argentate sbucano dal giubbotto sotto il quale si è rannicchiata. Sul dorso è applicata la scritta «Whatever». Scatto una foto con il cellulare pensando che così è come deve immaginarla, unica al mondo, sua madre. In questo momento è Maria, la sorella minore di Norma. Poi compare lui, Stefano, il fidanzato bambino. Si avvicina al viso addormentato e se questa è una Storia fabbricata per pubblicità va detto che si stanno impegnando per recitarla. Come si possa passare dal sonno alla sessualità in zero secondi è qualcosa che riguarda gli studi di etologia. Il mio unico problema è verificare l’assenza di telecamere a circuito chiuso, un video è già stato sufficiente. Succederà ancora e spesso, nel corso della trasferta. Durante il servizio fotografico lui si addormenta su un lettino, sotto il sole. In una pausa lei gli restituisce la cortesia aeroportuale risvegliandolo a modo suo, a modo loro. La moglie del fotografo si affaccia, guarda e domanda: «Che roba è quella?». Lui si gira e soave risponde: «Ricordi? Credo si chiamasse sesso». Sbrandati nell’attesa della luce giusta ne abbiamo parlato, del sesso e dei suoi effetti collaterali. Lei ha una visione genuina anche nell’esposizione: «Sto con una persona soltanto se mi piace da quel punto di vista». Un autore francese, Pierre Merot, ha scritto che «il sesso è la sola forma, per quanto pietosa, che abbiamo trovato per dire qualcosa sull’amore». Belén ne ha fatto la parafrasi, semplificando il concetto: «Le prime volte non mi è piaciuto. Ho pensato: tutto questo casino per una cosa che fa male. Poi, dopo un po’, è cambiato tutto. Ma è il sesso a determinare l’amore e non viceversa. Se con qualcuno non funziona, non m’innamoro. Se funziona, mi fidanzo per quattro anni. Ho sempre avuto questo problema, al quarto anno mollo». L’ultimo arrivato è in pista da due mesi, ha tutta la vita davanti. «È giovane, ero stanca di vecchi. Lui mi fa divertire, vuole sempre andare, fare. Alle otto del mattino è già lì che aspetta per uscire». Anche tre giorni a Los Angeles se li vivono così: ci sono sempre porte e portiere che si chiudono e loro che spariscono. Per abbattere lui ci vuole una canna al mattino, che fa da cuscino al jet lag. Per abbattere lei ci vuole un plotone d’esecuzione. Belén ha la vocazione della seduzione e come tutti quelli vocati, prima o poi vanno in missione. Belén vuole tutto e, ancor più, niente. Ha assunto un insegnante d’inglese prepagandolo per un anno e non ha preso una sola lezione: the cat is not on the table. Ha comprato un pianoforte ma non ha imparato a suonarlo. Alla fine anche lei è diventata prigioniera della proiezione di sé, si sovrappone al proprio ologramma. Si infila un costume come entrasse in un’altra dimensione e dice, per lo più a se stessa: «Non voglio apparire sorridente, voglio essere una stronza sexy». I verbi apparire ed essere andrebbero probabilmente invertiti se nella sua esistenza non fossero diventati sinonimi. Nel suo straordinario resoconto (non saprei come altro definirlo) su Marilyn, Truman Capote ripete più volte la domanda che immagina si sentirà rivolgere all’infinito dopo averla incontrata: «Com’è VERAMENTE Marilyn?». Lei sembra più preoccupata di lui dalla possibile risposta. Cerca di capire cosa le convenga o le faccia torto rivelare o proiettare di sé. Alla fine, dopo che ha pianto, riso, affascinato, conclude: «Dirai che sono una balorda». E lui: «Ovviamente, ma direi anche...». Qui il superbo narratore fa una pausa di suspence, manda avanti il tempo per usarlo come un’arma impropria, inscrive una parentesi in cui la luce svanisce e Marilyn sembra fare altrettanto, facendogli venire la tentazione di alzare la voce per richiamarla urlando il suo nome e domandandosi perché le cose siano dovute andare in quel modo, perché la vita debba essere così marcia. Poi fa un passo indietro: «Ma direi anche che sei una bellissima bambina». Addormentata sotto il giubbotto, anche Belén lo è. Le manca il mantello della tragedia che tutto redime, che chiunque eleva all’attico della leggenda. Si può vivere anche senza. Si può vivere soltanto senza. È un baratto con il dileggio, l’incomprensione, la villania delle opinioni comuni. Si è una presenza, ma su quella presenza ci si può anche accanire. L’assenza nobilita e mette al riparo. Belén vive allo scoperto. Ha una muta di paparazzi sotto casa, all’uscita di un qualunque negozio, ristorante, casello autostradale. È ricca e sfrontata. Guarda le villette di Los Angeles e dice: «Quasi ne compro una. Devo investire, meglio una casa, ma non in Italia, troppe tasse: fanculo». «L’auto? Non ne ho bisogno. Se ne ho bisogno, me ne danno una». «Il tempo? Che passi pure, non mi spaventa». Non ha paura di niente. Poi quando le chiedono di fare uno scatto sott’acqua dice no: «Mi entra nel naso, ho la fobia». È nelle contraddizioni che diventiamo veri, il resto sono pose. È così anche con la storia della «stronza sexy». Si fa i suoi giri di pista, cambia costume, ma non espressione. Continua a sfidare, a proiettare, a farsi forza con la forza. Douglas guarda nell’obiettivo, scatta a ripetizione, ma mormora: «E sempre e solo così? Quand’è che arriva veramente?». Gli dico: «Ci metterà del tempo, ma esiste: l’ho vista dormire». Non so se sia un’affermazione limitata alla circostanza o un’estensibile metafora. Ci vuole del tempo per arrivare a essere quel che si è e in qualche vita non succede neppure. C’è troppa gente che ti contrabbanda il suo disegno per il riflesso di uno specchio e magari ti convince o magari, semplicemente, ti arrendi. Quel dettaglio che è la verità tende a sfuggire. Qualche volta lo sa cogliere una persona, una sola tra le migliaia contro cui ti schianti. Nel caso di Marilyn, fragile com’erà, poteva riuscirci soltanto la macchina da presa. Per quanto riguarda Belén succede che a un certo punto Douglas si accenda, a 78 anni e dopo tutto quel che ha visto si ecciti e mi dica: «Guarda, non coi tuoi occhi, guarda nella macchina, sta avvenendo». Lo faccio, e la vedo. Per un istante appare quel che è. Come dire, giacché l’han detto: una bellissima bambina.